C’è la gara, ovviamente. E c’è il deserto con la sua atmosfera magica. Ma alla 100 Km del Sahara ci sono anche tante storie che si sgranano passo dopo passo nella sabbia. E questa 19a edizione non fa eccezione.
foto: Pierluigi Benini
È andata in archivio anche questa 19a edizione della 100 km del Sahara, con grande soddisfazione di tutto lo staff: dai cronometristi ai cuochi, dal tracciatore al personale dislocato lungo i punti ristoro, dai fotografi ai videomaker, dai camionisti ai medici. Tutti con funzioni importanti, anzi necessarie, e tutti coordinati dal deus ex machina dell’evento, colui che nel 1999, nell’anno zero, ha dato il via a una gara riservata a un manipolo di podisti avventurosi che si inoltravano su e giù per le dune del Sahara tunisino: Adriano Zito.
Tutti soddisfatti, dicevamo, ma i più emozionati/felici/orgogliosi sono senz’altro i concorrenti, che sono poi l’anima della manifestazione. Un’ottantina i partenti tra runners, nordic walkers e walkers con diversi chilometraggi: 100 per i primi, 80 per i secondi e 50 per i terzi. Aprire la possibilità di partecipare anche ai camminatori ha ampliato di molto il numero di iscrizioni, rendendo più abbordabile un’esperienza che, per tutti, corridori e non, è magica, speciale. E questo non solo per la gara in sé ma, soprattutto, per la speciale atmosfera di amicizia/complicità/empatia che si crea tra partecipanti e staff.
Ma veniamo ai dati relativi all’evento. Primo e ultimo giorno si è alloggiati in hotel (un eccellente 4 stelle, con tanto di piscina e Spa), mentre i tre giorni centrali si trascorrono nel deserto: uno in un campo tendato, Zmela Labrissa, 20 km a sud dell’Oasi di Ksar Ghilane, e gli altri due nel nulla più totale, dove viene allestito un campo di tende berbere e camion-cucina dello staff.
Eppure non manca niente: docce, assistenza medica, tenda-mensa con pasti gustosi di cucina italiana del grande cuoco e veterano Roberto Salardi, per tutti Pepe. La finish line è collocata a ridosso dell’Oasi di Douz e, l’ultima sera, si è fatta festa in albergo con cena a bordo piscina, premiazioni, proiezioni e saluti di arrivederci, mai di addio.
Luis Alonso Marcos è il vincitore di questa edizione, col suo crono stoppato a 8:36’23” (sì, 100 km corsi in poco più di otto ore e mezzo nonostante la sabbia lieve come borotalco che, invece che avanzare, fa sprofondare, e i sassi sugli sterrati, col sole cocente sulla testa. Un grande!). Lo segue Alejandro Fraguela Breijo, con 9:22’30”, e Cristian Re, 1° tra gli italiani con 9:55’42”.
Molta distanza, dunque, tra i primi tre. Figurarsi per le retrovie! Tutti i concorrenti sono molto sgranati lungo il percorso. Avendo corricchiato anch’io qualche pezzo (senza pettorale e fuori gara, giusto per “assaggiare” la gara), la cosa più emozionante e difficile da spiegare se non la si prova in prima persona è che in molti tratti e per molti chilometri ci si trova soli lungo il percorso. Girando lo sguardo a 360°, non c’è niente e nessuno, solo sabbia e dune. Natura e selvaggio a perdita d’occhio.
E poi ci siamo noi, con le nostre gambe e il nostro respiro che si mischia al vento leggero che ogni tanto viene a stemperare il caldo-fuoco dei 40°. I nostri pensieri, la vita. O meglio, a volte, i non pensieri, la leggerezza, la gioia e l’orgoglio di essere lì. Come Giovanni Iommi ed Enrica Carrara, i ritirati eccellenti, i vincitori dell’anno scorso che sono venuti a difendere il titolo ma ambedue, per problemi fisici diversi, hanno dovuto mollare.
E qui faccio una breve considerazione: anche e soprattutto nel capire e ascoltare il proprio corpo che dà segnali negativi sta la grandezza dell’atleta. Dunque, no al “boia chi molla”, ma sì al rispetto e all’accettazione dei propri (momentanei) limiti.
Alle premiazioni, come da classifica a bordo piscina dell’ultima sera insieme, si sono aggiunti gli special prize, i premi speciali per persone speciali, come quello dedicato al più giovane concorrente (18 anni) e alla meno giovane (79 anni). E poi loro, i coniugi Enckels, che hanno portato con sé, nel deserto e ovunque, una storia che non vorresti mai sentire: sei mesi fa hanno perso il loro bimbo di soli cinque anni, gli ultimi tre dei quali passati a combattere un brutto male. Sono venuti nel deserto per cercare di alleviare il dolore e forse un po’ ci sono riusciti.
E poi c’è stato il gruppo di Missione Perù che, nella persona dell’ispettore di Polizia Raniero Zuccaro, ha corso per far del bene e donare aiuti alla piccola comunità di suore cappuccine di Madre Rubatto, che in quelle terre del Sudamerica garantisce un pasto caldo e istruzione ai piccoli indigenti. Corrono “per lasciare un’impronta”, e non solo sulla sabbia.
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