Tra le mille gare che mi interessano, molte hanno in comune l’autosufficienza. E il deserto è uno degli ambienti migliori per mettersi alla prova. È giunto il momento di iniziare a capirci qualche cosa. Per autosufficienza si intende che, per tutta la durata della gara, gli organizzatori ti forniscono acqua e tenda. Tutto il resto devi portartelo in uno zaino. Come per molte gare c’è un equipaggiamento obbligatorio, un minimo di calorie giornaliere e un kit di pronto soccorso. Sulle cose obbligatorie c’è poco da discutere: se non ci sono, sei escluso dalla competizione.
La gara che ho scelto per la mia prima esperienza è l’Oman Desert Marathon giunta alla quarta edizione. La ODM è una competizione di 165 km in 6 giorni. Ho scelto questa gara per più motivi, il primo è la durata. In sei giorni ho la possibilità di imparare dagli errori che sicuramente farò. Il secondo motivo è la distanza che non è eccessiva, ma più che altro è il deserto che voglio rivedere, voglio riascoltare il suo silenzio. Quindi si va in Oman, è deciso.

Vista la mia totale inesperienza in fatto di autosufficienza, devo colmare questa lacuna. Passo le serate in compagnia di una calcolatrice, una bilancia e un computer per cercare il giusto compromesso tra peso e apporto calorico. Preparo cene con il fornelletto da campo, pianifico un ipotetico consumo calorico per tappa e relativo menù dalla colazione alla cena. Una volta sicuro della teoria, sono passato alla prova dello zaino spuntando meticolosamente la lista e appoggiando a terra tutto quello che credevo potesse essermi utile.
Il primo tentativo è stato un vero fallimento. Fare entrare nello zaino tutte quelle cose era impossibile. Il mio zaino WAA Ultra Equipment ha una capienza di 20 lt: quattro in più rispetto a quello usato nella Marathon des Sables, per cui il problema non è il suo. Molte sere e molti calcoli dopo, riesco finalmente a chiudere lo zaino. Ora il punto è riuscire a portarmelo addosso x l’intera corsa.
I giorni della preparazione sono finiti, ed è arrivato quello della partenza. Ho appuntamento alle 8 del mattino all’esterno dell’aeroporto di Muscat, dove un pullman ci porterà ad Al Wasil per poi salire su nuovissimi fuoristrada che ci condurranno al campo base di Bidiyah.
Lo zaino, un bel problema…
La prima giornata non è niente male. Dopo aver dormito un paio d’ore per terra in aeroporto, sull’autobus incontro Marco Olmo, che ho avuto il piacere di conoscere in Messico, e ora ho la fortuna di reincontrare in questa gara. Durante le pratiche del ritiro pettorale e controllo del materiale obbligatorio, mi imbatto in quattro Podisti per Caso con i quali avevo partecipato a una gara a tappe in Islanda.
Passano pochi minuti e diventiamo un gruppo che ride e scherza sorseggiando té ai piedi di un’imponente duna che di lì a poco scaliamo per goderci il tramonto. Il primo giorno volge al termine, è ora di andare a controllare le ultime cose, sistemare il pettorale e dormire. Mentre mi avvio verso la mia stanza, scopro che lo zaino di un amico pesa 6 kg mentre il mio quasi 10 senz’acqua. Non è ancora iniziata la gara e solo ora capisco di aver sbagliato qualche cosa.

Prima tappa, di corsa con i bambini
Sveglia alle 5:30, dopo la colazione ci portano alla partenza. Da adesso inizia l’autosufficienza. La prima tappa è di 21 km, con partenza e arrivo nealla cittadina di Al Wasil. Il primo giorno di corsa scivola via velocemente, forse perché ci sono molti tratti dove il terreno è battuto. L’arrivo è emozionante perché sono circondato da bambini che di corsa mi accompagnano fino al traguardo. Una volta ripresi dal caldo e dissetati, saliamo a bordo dei fuoristrada che ci conducono al campo base. D’ora in poi gli organizzatori e i concorrenti saranno le uniche persone che vedremo, non ci saranno più centri abitati fino alla fine. Noi e il deserto. Fantastico.
Il campo base è composto da otto grandi tende nere completamente aperte ad est, in ogni tenda sono ospitati 11 atleti, di fronte si trovano le tende dei medici e degli organizzatori. All’esterno sorge un altro accampamento dove stanno gli Omaniti responsabili della logistica. Il campo ogni mattina viene smontato e rimontato nel punto di arrivo della tappa.
La mia tenda è la numero due, e ritrovo con piacere buona parte dei ragazzi conosciuti il giorno prima. La vita del campo qui in mezzo al deserto è abbastanza semplice: stendi maglietta e pantaloncini, prepari il pranzo, mangi a intervalli e bevi. Alle 18 il sole scende ed è ora di preparare la cena. Alle 20 ci si ritira nei sacchi a pelo fino alle 5:20, quando è l’ora di svegliarsi. Per chi come me ha qualche problema ad addormentarsi, basta fare qualche passo fuori dalla tenda per godersi lo spettacolo di una notte stellata.
Seconda tappa, rischio disidratazione
Il giorno dopo all’alba il sole ci sveglia. Ci prepariamo la colazione e siamo pronti per partire. Oggi sono 28 km, in un deserto diverso da quello conosciuto in Marocco. Le dune sono su una linea continua, quasi mai nella direzione del tracciato, questo fa sì che non è possibile correre sulla cresta dove la sabbia battuta dal vento è compatta e ti permette di avere un buon passo.
Il nostro tracciato è spesso su sentieri dove la sabbia è morbida e l’appoggio instabile. Cercare impronte con un passo simile al proprio è una buona soluzione per non disperdere le forze nella spinta. Dopo le prime due ore lo zaino fa sentire tutto il suo peso. Un’altra cosa che non mi aspettavo è l’umidità, con il problema di perdere più sali del previsto.
Finisco la tappa in circa cinque ore e mezza. Sono molto stanco, faccio un calcolo di quanto ho bevuto ed è troppo poco, meno di due litri. Oggi l’Oman ha presentato il conto e non sono stato attento. Devo essere più preciso nell’assumere sali, acqua e cibo. Alex, un ragazzo della mia tenda, ha avuto un problema di disidratazione, niente di grave, i medici che seguono la gara lo hanno rimesso in piedi e ha finito la tappa.
Un po’ per tutti è stata una corsa di assestamento e, dopo aver mangiato, gli animi si risollevano e si torna a ridere. L’arrivo è di fronte al campo base e possiamo fare il tifo a chi taglia il traguardo. Mi controllo e, oltre a qualche piccola trascurabile abrasione, scopro che i piedi non stanno benissimo. Non mi è mai successo, cerco il lato positivo e, in effetti, usando il kit medico alleggerisco lo zaino anche se non è poi un grande lato positivo.
Terza tappa, poca fame e piedi rovinati
Il giorno successivo altri 26 km. Non devo fare gli stessi errori di ieri. Pensare ai chilometri è fuorviante. Ogni giorno starò in giro per circa cinque ore a 30 gradi. Devo bere spesso e, anche se non ho sete, devo cercare di non far passare mai più di 15 minuti; ogni 45 minuti devo mangiare e ogni ora devo prendere una pastiglia di sale.
A circa 10 km, quando incontro il check point e il rifornimento di acqua, prendo un gel con mezzo litro di acqua. Con questo piano la tappa va liscia. Il punto è che sono al terzo giorno e non ho fame, anche ieri non sono riuscito a mangiare tutto quello che avevo preparato. Più che altro non riesco a deglutire. Comunque mi sento bene e non sono preoccupato.
Della mia inappetenza il più contento è Nicola, che non si tira indietro e per lui doppia razione, visto che è in classifica tra i primi dieci e ne ha più bisogno di me. I miei piedi non sono migliorati, il deserto mi sta presentando il conto: faccio un po’ fatica a camminare e vado a farmi medicare dal podologo.
Dopo tre tappe ho tre dita K.O…. ma ho anche più dita ai piedi che giorni di gara da fare! Quindi non dovrebbero esserci particolari problemi. Il podologo, dopo avermi medicato, mi consegna l’ago che dovrò usare nei prossimi giorni e mi raccomanda di stare attento alla sabbia perché le ferite devono rimanere pulite. Sorrido e dimentico l’avvertenza. Torno in tenda e mi accorgo che le persone che attraversano il campo si muovono come zombie, eppure all’indomani correremo tutti.
Quarta tappa, datemi una birra!
Anche la colazione inizia a darmi fastidio, sono due giorni che mangio meno di quello che dovrei e oggi mi sento strano, come se avessi un po’ di vertigini. Tutto passa appena partiti. Lo zaino è sensibilmente più leggero, ed essendo anche più vuoto non è regolato bene come prima, cerco di sistemarlo mentre corro ma si muove ancora. La tappa mi sembra più dura, preferisco non seguire il tracciato più lineare perché spesso mi ritrovo nella conca tra le dune dove non c’è un filo d’aria. Preferisco restare sulla cresta il più a lungo possibile per poi scendere e risalire nei punti più ripidi. Probabilmente è più faticoso, ma il caldo oggi non lo sopporto.
Non dovrebbe mancare molto e sto affrontando una lunga e ripida salita con un passo lentissimo, parlando da solo a voce alta, quando la jeep del medico, scendendo dalla duna, mi affianca chiedendomi se va tutto bene. Ovviamente rispondo che è tutto ok. Dopo pochi metri mi chiedo cosa intendevo esattamente per “va tutto bene”. Mi fanno male i piedi, le ginocchia, le gambe e la schiena. Vorrei lanciare lo zaino e parlo da solo, più che parlare è da quasi metà salita che ripeto come un mantra “voglio una birra fredda, voglio una birra fredda…”.
Arrivo in cima e scorgo il campo. Vedere l’arrivo infonde sempre un po’ di forza e, al piccolo trotto, chiudo anche questa tappa. Ovviamente nessuna birra mi poteva aspettare, ma ormai non ci penso più e mi godo il mezzo litro di acqua fredda che mi viene offerto all’arrivo. Si possono fare le cose con più calma perché all’indomani c’è la maratona e la partenza è nel pomeriggio.
Durante la tappa ho avuto il tempo per capire dove sbagliavo nell’alimentazione. Devo invertire quello che prendo a pranzo e a cena. Per pranzo ero solito prepararmi mais, cous-cous o quinoa: tutti alimenti che dopo uno sforzo facevo fatica a deglutire e che mi saziavano subito. Per cena era previsto semolino o vellutata, che sono più semplici da deglutire. Oggi inverto le pietanze, così dovrei riuscire a introdurre le calorie giuste.
Sono le 22 e nella tenda tutti dormono. La luna illumina il campo, a poca distanza c’è una piccola duna. Prendo un pezzo di cartone e, a piedi nudi, attraverso il campo con l’intento di andare a sdraiarmi sulla duna per guardare il cielo. Quando ormai sono arrivato, incontro degli Omaniti con una luce intenti a cercare qualche cosa. Incuriosito chiedo cosa stiano facendo e, in modo candido, mi rispondono che uccidono gli scorpioni. Che idea brillante venire a piedi nudi sulla duna! La luce della luna è talmente forte che si riesce a vedere nitidamente dove poter camminare. L’unico animale che ho incontrato è stata una strana e buffa lucertola.

Quinta tappa, voglia di anguria
Il mattino del quinto giorno è strano perché i tempi sono diversi. Dobbiamo solo decidere quando mangiare in relazione all’inizio della maratona. In tenda passa il medico che, con due lunghi pezzi di cerotto, mi sistema le abrasioni sulla schiena causate dallo zaino. Sono giorni che in tenda si condividono gli stessi spazi e si è formato un bel gruppo.
Iniziamo a scambiarci anche il cibo, perché quello del vicino è sempre più buono. Ci sono circa 38 gradi in tenda, ma è anche l’unico posto all’ombra qui nel deserto. Parliamo di gelati e di quali gusti mangeremmo, “è meglio il cono o la coppetta?”, per poi arrivare a una conclusione condivisa. Ciò che vorremmo veramente è una fetta di anguria freddissima da mangiare senza posate per poterci affondare la faccia.
Scende un religioso silenzio che viene rotto dalla voce di Chiara, che lanciandomi un sacchetto esclama: “Io ho questo”. Il sacchetto contiene una polvere chimica al sapore di anguria, o almeno questo è quello che l’etichetta promette. Al centro del campo gli organizzatori mettono due contenitori termici con il ghiaccio dove è possibile refrigerare le bottigliette d’acqua. Nel giro di pochi secondi si materializzano alcune bottiglie d’acqua fredda e, come perfetti compagni di cella, ci passiamo il preziosissimo té all’anguria. Buonissimo.
Chiara fa parte dei Podisti per Caso. Gente che ha tutta la mia stima perché i loro zaini sembrano la borsa di Mary Poppins, ne escono sempre cibi sfiziosi che, solo annusandoli, tirano su il morale. Il té freddo è un piacevole diversivo e la sensazione di rilassatezza un po’ inganna, sembra che la gara sia quasi finita eppure mancano 70 chilometri.
Il primo gruppo parte alle 15 per la maratona, e dopo due ore partono i primi 20 atleti in classifica. Correre nel primo pomeriggio non è una cosa semplice perché il caldo si fa sentire ma, dopo poche ore, il sole scende. Mi sento meglio degli altri giorni e riesco a tenere il passo anche in salita. Ho perso i sali, probabilmente sono caduti durante il ristoro. Per fortuna mi raggiunge Manrico che mi regala due pastiglie di maltodestrina. Non faccio in tempo a ringraziarlo, che sparisce correndo in discesa. Rompo in quattro ogni pastiglia così da averne fino alla fine.
Il sole cede il posto alla luna, che con il suo splendore illumina il deserto. Spengo la frontale e mi godo questa maratona notturna. Il tracciato è ben visibile grazie alle piccole torce led dislocate lungo il percorso. Sono quasi le 23 quando chiudo la tappa, c’è buio ed è calata la nebbia. Trovare la tenda è però facile perché gli amici Podisti per Caso l’hanno abbellita con cerchietti fluorescenti colorati. Mi cambio, mangio e cerco di dormire ma stanotte non mi riesce proprio, guardo l’orologio e sono le 4:20. La nebbia è diventata fitta e devo svegliarmi nel giro di un’ora.
Sesta tappa, la fine e un tuffo in mare
Ecco l’alba del sesto giorno nel deserto. Lo zaino è praticamente vuoto, giusto il necessario per la corsa. Butto anche la pentola. Ho recuperato la busta con le pastiglie di sale che una runner aveva trovato. Gli abiti sono completamente bagnati e mi si rompe la cerniera di una ghetta. Per fortuna è l’ultima tappa. Oggi in 24 chilometri raggiungeremo il Mare d’Arabia. Gli ultimi 7 km di questa gara sono spettacolari. Le dune non seguono più un’unica direzione ma, come onde cristallizzate, si insinuano una nell’altra.
Grazie alla bellezza e al divertimento, la fatica non si sente. Salendo sulle dune più alte si riesce a vedere all’orizzonte il blu del mare. Mancano pochi metri e un sorriso mi si stampa in faccia. È finita, mi sto lasciando alle spalle il deserto, sorrido e ringrazio gli organizzatori. L’arrivo è a pochi metri dalla battigia. La fine della gara riesce a dare una sensazione di chiusura definitiva perché davanti non si ha più la terra su cui correre, più avanti non si può andare. Raggiungo gli amici, lascio cadere la medaglia sulla sabbia e mi tuffo in mare.
© riproduzione riservata