Se vi dicono che una giacca a vento è sostenibile al 100%, non ci credete. Ad oggi i capi non possono essere riciclati. La buona notizia, però, è che molte aziende stanno studiando il modo per farlo.
Quando si parla di riciclo, la prima cosa che viene in mente è la plastica. In realtà c’è un altro settore merceologico che fa danni gravissimi all’ambiente: quello dell’abbigliamento.
Secondo lo studio A New Textile Economy realizzato da Ellen Mc Arthur Foundation (un’organizzazione che ha sede a Chicago, e finanzia organizzazioni senza scopo di lucro in 50 Paesi), questo comparto industriale è fra i più inquinanti del pianeta: solo l’1% dei materiali utilizzati per la produzione proviene infatti da capi usati.
Perché? Perché l’abbigliamento (soprattutto quello sportivo) viene prodotto utilizzando tessuti in fibre miste. E la separazione di materiali già per loro natura complessi è resa ancora più difficile dalle sofisticate tecnologie utilizzate per produrre questi mix di tessuti.
Giacche, pantaloni e magliette non vengono insomma progettati fin dall’inizio per essere riutilizzati. Anche se spesso ormai parte delle fibre che compongono i capi sono davvero prodotte in modo sostenibile.

Un problema che si chiama smaltimento
“Al momento – ammette Florian Palluel, responsabile sostenibilità e trasparenza di Picture Organic Clothing – i capi non possono essere riciclati. Perché i processi di fine vita, soprattutto per l’abbigliamento tecnico, non esistono o sono ancora in fase embrionale. Oggi la tendenza è quella di estendere il più possibile la durata di vita del prodotto. Conosciamo per la verità due tecnologie interessanti per il fine vita del poliestere. Ma purtroppo non sono ancora applicabili industrialmente”.
Le aziende che operano nel settore dell’outdoor, più ancora di quelle produttrici di abbigliamento urban, sono interessate allo sviluppo di tecnologie per il riciclo dei capi a fine vita. Perché outdoor è sinonimo di natura, libertà, spazi aperti. E la sostenibilità diventa quindi anche una questione di immagine, oltre che di sostanza.
Il Mono Material Insulator di Helly Hansen è un piumino sintetico realizzato utilizzando solo poliestere (ad eccezione della cerniera).
Abbigliamento outdoor e sostenibilità: il problema dell’usato
Ci sono aziende che fanno della sostenibilità la loro bandiera. Ma a volte si scopre che è tutto fumo e poco arrosto. Il colosso H&M, per esempio, sta facendo una campagna per raccogliere l’abbigliamento usato. I capi in buono stato, dicono, “verranno riproposti sul mercato mondiale come abiti di seconda mano“. Mentre quelli non più utilizzabili “riceveranno una nuova vita come fibre tessili o saranno utilizzati nella manifattura di altri prodotti”.
In realtà la maggior parte di questi abiti usati finisce in stracci, perché è praticamente impossibile separare i diversi materiali che compongono i tessuti. Anche se un capo è realizzato per esempio al 100% in cotone, avrà comunque sempre bottoni, cuciture in nylon, asole che lo rendono “misto”. E il processo per separare le diverse fibre sarebbe troppo oneroso dal punto di vista economico.
“Se nel futuro fossimo capaci di riciclare completamente i prodotti, sarebbe davvero un grande passo avanti. Ma purtroppo non siamo ancora capaci di farlo – considera anche Rebecca Johansson, R&D and sustainability manager di Helly Hansen. “Quello verso la sostenibilità è un vero e proprio viaggio. E noi di Helly Hansen sappiamo comunque che abbiamo fatto dei grandi passi avanti con il nuovo Lifa Infinity Pro”. Di che cosa si tratta? Di un tessuto idrorepellente realizzato al 100% in fibre di polipropilene, capace di respingere l’acqua senza la necessità di applicare alcun trattamento chimico. Con questa innovazione, Helly Hansen è il primo marchio del settore outdoor a passare da una soluzione PFC-Free a una soluzione DWR-free.
“Oltre a questo – continua Rebecca Johansson – per la stagione autunno/inverno 2020 abbiamo lanciato una collezione battezzata Mono Material. Sono capi di abbigliamento realizzati in un unico materiale: il poliestere. L’obiettivo è proprio il riciclo a fine vita. E vorremmo riuscire a fare lo stesso in futuro anche con le fibre Lifa, che hanno come base il polipropilene”.
RePetIta è una nuova fibra tessile utilizzata nello sportswear.
Tessuti ricavati dalle bottiglie di plastica
Anche la francese Lafuma, fondata nel 1930, tiene il timone ben puntato verso la sostenibilità. Come i principali brand che operano nel settore outdoor, ha brevettato un proprio tessuto – il Repreve – realizzato interamente con plastica riciclata. L’azienda ogni anno riutilizza miliardi di bottiglie in Pet, trasformandole in pile, giacche e magliette.
“Oggi l’80% delle nostre collezioni è “ecologico” – dicono -. I prodotti sono certificati dall’etichetta Low Impact. L’obiettivo per il 2025 è arrivare ad avere questa certificazione su tutti i pezzi che escono dai nostri stabilimenti”.
Con la plastica riciclata è realizzato anche il nuovo tessuto battezzato RePetIta. Una fibra tessile che – grazie alla possibilità di essere sottoposta a trattamenti antibatterici e idrorepellenti – vede il suo utilizzo ideale nello sportswear e ha ricevuto la certificazione GRS di Textile Exchange, una delle più importanti organizzazioni non-profit che promuovono a livello internazionale lo sviluppo responsabile e sostenibile nel settore tessile.
Tra i tessuti più promettenti, ancora, va segnalato PrimaLoft Bio prodotto dalla statunitense PrimaLoft. L’azienda, che opera nel settore della scienza dei materiali e ha sede a Latham (New York), è specializzata nella ricerca e sviluppo di fibre per l’isolamento. E molti brand internazionali utilizzano i suoi brevetti. Quello su cui convergono le speranze green del mondo outdoor è appunto il PrimaLoft Bio. Quando viene esposto all’acqua marina, alle acque reflue o alle discariche, i microbi spezzano le fibre senza lasciare alcun rifiuto nocivo. Le fibre vengono poi trasformate nel tempo in acqua, CO2, metano, biomassa e humus.

In realtà anche il poliestere funziona un po’ nello stesso modo: però il PrimaLoft Bio lo fa in modo molto più veloce. La biodegradazione quasi completa viene raggiunta in meno di due anni (mentre in questo arco di tempo il poliestere standard rimane quasi completamente intatto).
Insomma, si procede un passo dopo l’altro. Ma la quadratura del cerchio è ancora lontana. “Stiamo studiando due possibili strade per riciclare il poliestere, farlo tornare allo stato monomerico e ricreare poi da lì una nuova fibra”, racconta Florian Palluel. “Si tratta di due diverse tecnologie su cui stiamo lavorando rispettivamente in Giappone e in Francia. Ma siamo solo agli inizi ed è difficile rendere industriale il procedimento”.
Abbigliamento outdoor e sostenibilità: il primo passo è allungare la vita dei prodotti
Nell’attesa di riuscire a realizzare capi di abbigliamento e accessori riciclabili al 100%, ci si sta muovendo in un’altra direzione: allungare il più possibile la vita dei prodotti. Vendendo oggetti capaci di durare nel tempo, e offrendo ai clienti la possibilità di far riparare giacche, zaini e scarpe. Una tendenza, questa, che non è esclusiva del settore outdoor. Come insegna Restart Project, movimento europeo che ha come motto “Don’t despair, just repair“. Non eliminare, ma ripara. In questo caso si tratta di elettrodomestici e oggetti tecnologici, ma il trend è chiaro.

“Dal momento che non siamo ancora arrivati al punto di poter riciclare completamente i nostri prodotti, ci stiamo muovendo in altre direzioni. Puntiamo soprattutto sulla resistenza e sulla durata dei nostri prodotti – conferma infatti Laura Fagan, country manager Italia di Osprey -. Tanto per cominciare offriamo una garanzia a vita sui nostri zaini. Se possono essere riparati, interveniamo. Altrimenti recuperiamo le diverse parti (ganci, cerniere, ecc.) e le utilizziamo per altre riparazioni. Gli articoli scartati vengono regalati nell’ambito di iniziative di carattere umanitario“.
Anche Lafuma propone un servizio post-vendita di riparazione sartoriale. I capi possono così essere riconsegnati ai proprietari, pronti per venire di nuovo utilizzati. “Se non vengono riparati – spiegano – sono donati ad enti di beneficenza o ad associazioni che li trasformano in altri oggetti (borse, accessori, ecc.).
Vibram, poi, organizza periodicamente un laboratorio itinerante presso cui è possibile fa risuolare le proprie scarpe sportive. Il Sole Factor Mobile Lab (questo il suo nome) prevede diversi appuntamenti in giro per l’Italia, e in questo periodo di emergenza sanitaria ha lavorato anche organizzando il ritiro delle scarpe da riparare tramite corriere.
Tante le idee, tanta la carne al fuoco, tante le iniziative interessanti. Ma in fatto di abbigliamento outdoor e sostenibilità il cammino è ancora lungo. Stay tuned, perchè avremo ancora molte cose da raccontare.
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