Beba Schranz era sulla rampa di lancio negli anni ’70. Ma abbandonò lo sci dopo una grande delusione: la nazionale femminile non fu mandata ai Giochi di Sapporo. Così diventò giornalista con Rolly Marchi.
Poco tempo fa, consultando il mio archivio fotografico, mi sono imbattuto in alcune immagini del 2011. Un’estate a Cortina, dove all’epoca si organizzavano incontri di grande interesse a carattere letterario e artistico. Alla presenza di tanti nomi eccellenti, si svolgevano dialoghi, dibattiti, scambi culturali. Il tutto avveniva con l’Alto patrocinio della Presidenza della Repubblica.
Mi ricordo che durante una di queste serate incontrai un signore molto distinto, anziano e sorridente. Indossava un grande cappello a falda larga. Era un uomo molto alto e imponente. Mio padre appena lo vide si alzò dalla sedia e quasi con trepidazione gli si avvicinò per salutarlo. Mi disse poi che quel signore era Rolly Marchi.
Un vero mito, per tutti gli appassionati di sci, alpinismo e giornalismo sportivo. Purtroppo all’epoca mi sentivo molto giovane e inesperto, e non ebbi il coraggio a mia volta di presentarmi e salutarlo. Da allora mi è rimasto il rammarico di non averlo fatto. In ogni caso ho cercato di rifarmi recentemente, andando a intervistare la sua più preziosa collaboratrice: Maria Roberta (Beba) Schranz.
Beba, che fece parte della Nazionale di sci a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, fu in realtà non solo collaboratrice preziosa per Rolly Marchi, ma anche amica carissima per circa quarant’anni. Il nostro incontro è iniziato ripercorrendo i suoi primi passi sulla neve, e poi le tappe che l’hanno portata a diventare un’appassionata giornalista sportiva.
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– Beba, tu sei nata in montagna…
“Sì Jacopo, sono nata a Macugnaga, sotto la parte piemontese del Monte Rosa. Ho incominciato a sciare dall’età di tre anni. Mio papà lavorava sugli impianti e io ho iniziato così, con altri bambini. Una specie di sci club d’altri tempi. Il giovedì era libero dalla scuola e si andava a sciare sull’unico impianto che c’era, e che girava apposta per noi. Un gran bel gioco! Ricordo anche che andavamo nel bosco a tagliare rami di nocciolo: sarebbero stati i nostri paletti. Si levava la scorza, e si dipingevano di rosso e di blu. A quell’epoca anche di giallo, per la verità. Un grande divertimento”.
– Poi sono iniziate le gare vere…
“Sì, hanno hanno incominciato a portarci a fare gare in altri posti: al Mottarone, in Val Formazza… A farci da allenatori erano i maestri Alberto Corsi (fondatore della scuola sci di Macugnaga, ancora agonista insuperabile e vincitore di svariate Coppe del Mondo della categoria Master b12, ndr) e Edoardo Morandi. Ricordo di avere gareggiato al Tonale e anche sull’Etna. Coordinava il tutto il presidente dello sci club Gianni Ripamonti. Arrivarono risultati lusinghieri: vinsi i Campionati Europei Juniores, poi fui due anni in Nazionale B, e alla fine arrivò la tanto agognata Coppa del Mondo. Il successo, per me, era rappresentato allora da una stupenda sacca porta-sci col mio nome scritto sopra, e dentro due paia di sci per specialità”.
– Come si sciava a quell’epoca?
“Allora in slalom io sciavo con un paio di sci lunghi 1,95 centimetri. Ben 30 centimetri in più della mia altezza. Gli scarponi naturalmente erano di cuoio: dopo un po’ mollavano, e internamente bisognava metterci dei rinforzi in Araldite (una particolare colla epossidica) per renderli più rigidi”.
– Ma com’è che poi hai smesso presto di gareggiare?
” A un certo punto ci fu un grande momento: il 1970, con le gare dei Campionati Mondiali di sci alpino in Val Gardena. Volontà, entusiasmo, eccitazione… questo sarebbe stato il passaporto per i Giochi Olimpici del 1972 a Sapporo, in Giappone. Io avevo vent’anni ed era per me un grande opportunità. Ma prima di partire, arrivò la comunicazione della Federazione che la squadra femminile non avrebbe partecipato ai Giochi di Sapporo. Solo quella maschile sarebbe partita per il Giappone. Era il dicembre del 1972, e mancava poco al mio compleanno. Fu un’atroce delusione. Per questo smisi di lì a poco di sciare”.
– Però non ti sei mai allontanata dal mondo dello sci…
“Capitò che, mentre stavo organizzando una riunione con le mie compagne di squadra a Macugnaga, ricevetti una telefonata da Rolly Marchi. Lui era già un giornalista sportivo affermato, da anni seguiva il mondo dello sci e tutte le Olimpiadi. Parlammo un po’, e lui decise di partecipare a quell’incontro. A cui furono presenti anche nomi che fanno parte della storia di questo sport: da Massimo Di Marco, che è sempre stato mio grande sostenitore, a Gildo Siorpaes, ad Alberto Senigagliesi. Fu in quella fortunata occasione che Rolly mi disse che stava cercando una collaboratrice per il suo periodico La buona neve, il periodico che fondò e diresse poi per 21 anni. Da lì partì la mia nuova avventura di vita”.
– Ed è stato così che sei diventata giornalista!
“Una stupenda esperienza. Anche perché sono diventata giornalista in un contesto particolare, e questo mi ha anche consentito di avere un continuativo rapporto di amicizia e stima con Rolly. Un uomo gentile e costruttivo, affezionato al suo lavoro e di grande disponibilità. Per me si è trattato di un’importante esperienza umana e professionale. Una delle caratteristiche che più mi colpivano in Rolly, era la sua capacità di valutazione immediata delle atlete. Gli era bastato vedere la prima volta Lindsay Vonn in azione, e aveva decretato: un enorme talento. Tale poi infatti si è rivelata la ragazza”.
– Com’era Rolly Marchi nella vita di tutti i giorni?
“Nella sua gentilezza, era estremamente determinato. Voleva sempre essere presente ovunque, a tutti gli avvenimenti, partecipare sempre. Anche negli ultimi anni della sua vita, con la vista che lo aveva quasi completamente abbandonato, continuava a non mancare a manifestazioni e incontri. Un giorno gli dissi: Rolly, deve essere veramente duro accettare una situazione così limitativa… Lui con serafica pacatezza mi rispose: vedi Beba, ho avuto molto dalla vita, e quindi accetto quello che mi capita e non mi sento condizionato più di tanto”.
– Ti ha raccontato qualche aneddoto in particolare della sua vita a fianco di tanti campioni dello sci?
“Si trovava nel ’52 alle Olimpiadi di Oslo, dove Zeno Colò era uno dei maggiori favoriti. Pensò di tenergli compagnia nella notte prima della gara, e trasportò una brandina nella sua camera. Non dormirono per nulla: lui continuava ad andare alla finestra per valutare il meteo e le temperature, sempre tra una sigaretta e l’altra. Poi prendeva i suoi sci e si metteva a sciolinare. Parlarono molto quella notte, come due vecchi amici, con spirito cameratesco. Il giorno dopo, il 16 febbraio, Zeno vinse il primo oro olimpionico della squadra azzurra”.
– Delle tre nostre campionesse – Bassino, Brignone e Goggia – quale apprezzi di più per tecnica e gestione di gara?
“Ritengo che con una sciata duttile, leggera e senza forzature eccessive, sia Marta Bassino la migliore. Anche per la sua gestione logica e riflessiva della gara. Per quanto riguarda invece i maschi, Luca De Aliprandini sicuramente continuerà a dare grosse soddisfazioni”.
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