Un’idea balzana: scegliere come esordio podistico una gara di 120 km. Ecco la cronaca della mia 100 km del Sahara. Ma non prendetemi ad esempio!
I had a dream…
Avevo un sogno nel cassetto. Bislacco, senza dubbio. Ma mi frullava in mente da un po’ di tempo. Volevo andare nel deserto. Non in fuoristrada, come ogni turista rispettabile: bensì a piedi. Che ne sapevo io di deserti? Ben poco, in verità. Ero salita tra le dune a Zabriskie Point, ma tanto mi era bastato. Io avevo deciso che volevo camminare nel deserto. Sentire la sabbia sotto i piedi. Avere intorno un nulla pieno di presenze. Soffrire il caldo e la sete. Centellinare le forze. Spirito da maratoneta, potrei dire con il senno di poi. Ma allora non correvo. Non avevo mai corso, e neppure mi sognavo di prendere in considerazione questa eventualità.
Sunshine
«Sono stato nel deserto del Sahara», mi racconta un amico di mio marito. Un tipo originale, fissato con il running. «Vuoi vedere le foto?». L’inizio della fine. O l’inizio di tutto? Galeotto fu l’album fotografico. Una corsa nell’Erg della Tunisia. Più di 100 chilometri (120, per la precisione) a galoppare sotto il sole. Un plotone di fuori di testa armati di camel-back, occhiali scuri e barrette energetiche. Un’illuminazione: «Voglio andare anch’io! Quando è la prossima edizione?». L’amico di mio marito mi guarda perplesso: adesso quella strana sono io. «Se ti alleni duro, puoi provare quella dell’anno prossimo. La prima in programma parte troppo presto: in marzo, fra due mesi…». Non posso aspettare. Io vado. Domani mi iscrivo alla 100 Km del Shara.
Do you love me?
Ho chiesto a mio marito: «Vieni con me?». Una domanda retorica. È già difficile che venga con me al cinema: figuriamoci nel Sahara. Peccato. Il dado è tratto, ma tant’è sono un po’ preoccupata. E se mi perdo? Se muoio di sete? Se mi morde un serpente a sonagli? Il fatto di non finire la corsa, non lo prendo nemmeno in considerazione. Dopo tutto, basta allenarsi. E io ho ben due mesi davanti. E se proprio proprio va male, alla peggio camminerò.
Math is an opinion
Faccio due calcoli. Le tappe sono in media di 25 chilometri. Comincio a correre per un quarto d’ora consecutivo. Poi se in un mese mi alleno ogni giorno aumentando la distanza di un chilometro alla volta, sono a cavallo. Mi restano anche 15 giorni per sperimentare le andature in salita e testare la mia resistenza con uno zaino sulle spalle. Già, perché nel deserto bisogna correre portandosi appresso un bel po’ di roba: acqua, barrette, crema da sole, kit anti-scorpioni, telo di sopravvivenza, fischietto, accendino, cerotti… Va bene che non ho mai corso: ma il regolamento l’ho letto e riletto.
Tears & blood
Il primo giorno di allenamento va alla grande. Riesco a correre 20 minuti consecutivi. Sono un fenomeno, mi dico. Se va avanti così, faccio sfracelli! Il secondo giorno ho i polpacci di cemento. I giorni successivi sono un calvario. Non demordo, ma ogni mattina mi risveglio con un dolore diverso, che si aggiunge agli altri. Comincio a dubitare della mia salute mentale (quella fisica è ormai irrimediabilmente perduta). Il tempo passa. Mi rendo conto che non sono mai riuscita a stare in piedi sulle gambe per più di una decina di chilometri.
E allora una domenica abbandono il parco Lambro, teatro delle mie performance, e punto sull’argine dell’Adda. Niente corsa: voglio solo provare a camminare più a lungo che posso. Da Trezzo arrivo a Imbersago, mangio un panino e torno indietro. Trenta chilometri. Non esattamente una passeggiata. Ma ce la faccio. Sono soddisfatta. Salgo in macchina, torno indietro, parcheggio sotto casa. E lì rimango per una buona mezz’ora, mummificata, perché le mie gambe non si muovono più. Si rifiutano di proseguire. Potessero parlare, mi coprirebbero di improperi.
La cronaca dei giorni che precedono la gara (pochissimi, ormai) potrebbe essere intitolata «Io e l’Aulin». I tendini sono diventati cordoni grossi un dito. Le mie caviglie da gazzella sembrano quelle della donna-elefante. Le ginocchia ogni tanto cedono. Le anche scricchiolano. Il resto (dalla vita in su) va abbastanza bene.
Too late…
Il giorno della partenza sono lì, nell’area gruppi dell’aeroporto di Malpensa, a chiedermi «che ci faccio io qui?». Non conosco nessuno. Ho le gambe come due zamponi. Sono rincoglionita dall’Aulin. Intorno a me, gente assatanata che discute di tempi (tempi?), gare (gare?), frequenze massime e marche di cardiofrequenzimetri (ma che lingua parlano?). Le donne sono poche. Ogni tanto qualcuna mi rivolge la parola: «Quando hai fatto l’ultima maratona?». Non ci credono che corro (corro?) da due mesi. Pensano che voglia fare la furba e non scoprire le carte. Pensano che io sia una di quelle che non vuole mescolarsi al gruppo (in effetti, sarebbe già tanto riuscire a starci dietro…). Comincio a realizzare che sto facendo una follia. Vorrei piangere. «I signori passeggeri sono pregati di imbarcarsi…». Mah, domani magari sto meglio…
Home sweet home
L’arrivo al campo di Chenini, con le tende berbere disposte in circolo e tutto quel fervore pre-gara, è un’iniezione di vitalità. Si comincia a respirare un’aria da «grande famiglia». Una coppia di Parma mi «adotta» prendendosi a cuore la mia incoscienza. Dino e Lella hanno dentro una carica eccezionale. Loro ci credono, che questa è la mia prima corsa a cronometro. E sono francamente preoccupati. Adriano Zito, l’organizzatore di tutta la kermesse, è un trascinatore di folle. Fulvio Massini, tecnico e allenatore, organizza gruppi per le lezioni di stretching (stretching? ho imparato una parola nuova…). Un po’ alla volta mi sento a casa.
First step
Ed eccoci qua, pronti sulla linea di partenza. Un manipolo di un centinaio di arditi. Sono bastate una cena e una notte in tenda per stringere amicizie, decidere strategie di gara, stabilire chi corre con chi. La prima tappa non è una passeggiata: 24 chilometri, che cominciano con una salita mozzafiato attraverso il villaggio di Chenini. I bambini ci corrono dietro. Chiedono penne biro, caramelle e qualche soldo. Ma quanta energia hanno? Dopo un paio di chilometri, ho già perso tutta la mia baldanza. Superato il paese, recupero fiato. Ma una seconda salita mi stronca: sono 300 metri di dislivello su terreno accidentato, tra sassi e salti, prima di arrivare sull’altopiano. Sono morta, ma da lassù il panorama è splendido. Dietro di me, credo di avere addirittura un paio di persone. Non è ancora deserto, quello in cui arranco. Ma è già una promessa.
Good night
Alla fine del primo giorno è già tutto chiaro. Si è capito chi corre davvero, chi forse non arriverà nemmeno e chi si gioca il podio. Io ho corso per una decina di chilometri, e ho fatto il resto camminando. Cercherò di farne la mia strategia di gara. Credo di essere quintultima. Non male. Dopo cena, tutti a nanna. Siamo in cinque nella tenda: oltre a me, ci sono Lella e Dino; e Mario, di Brescia; e Barbara, che alla luce della torcia ci legge le poesie di Montale prima di dormire. Le guide beduine si sono accovacciate intorno al fuoco. Siamo a Garat Eddouiri. Il nulla. Non capisco nemmeno perché questo posto abbia un nome. Freddo cane: dobbiamo metterci persino il berretto in testa, oltre ai guanti e alle calze di lana. Ma il cielo è una trapunta di stelle.
Run, baby, run
La seconda giornata marca male: 25 chilometri più una tappa notturna di altri dieci. I miei muscoli urlano. Nemmeno il caffè bollente riesce a distrarli. Ma quando il sole comincia a scaldare le ossa, vedo tutto sotto un’altra luce. Comincio a correre. Nastri infiniti di sterrati e rocce si susseguono. Ma quanti colori ha il deserto? Di quando in quando, la strada è tagliata da lingue di sabbia dorata. Granelli infinitesimali si infilano dentro le scarpe. Tocca fermarsi per toglierli, e controllare che non ci siano vesciche. Nel caso, un Compeed. Le ho messe in preventivo, le vesciche. Anche se ho seguito alla lettera i consigli dell’amico di mio marito: prima di partire, tutte le sere pediluvio e frizioni con la crema Nivea. Al momento ne ho una sola, enorme, sul piede destro. C’è chi è messo molto peggio di me.
Riesco a correre anche questa volta per una decina di chilometri. Trentotto gradi. Controllo l’orologio: ogni quarto d’ora bevo un sorso d’acqua. Me l’hanno detto, che l’aria secca del deserto è traditrice. Quando ti accorgi di avere sete, è troppo tardi: stai già cominciando a disidratarti. E allora è un casino. Mi si affianca il fuoristrada di Adriano Zito: «Tutto bene?». Faccio il gesto di OK con le dita. E chi ha il fiato per parlare? Adesso l’hanno capito tutti, che davvero questa è la mia prima gara. Si preoccupano per me. E io mi preoccupo perché loro si preoccupano.
Hallo, darkness!
Questa sera credo davvero di non farcela. Siamo attendati a Campo Pozzo (anche questa volta nel nulla…ma come può avere un nome, il nulla?). Il sole è già calato da parecchio. Gli organizzatori stanno terminando di allestire il percorso per la gara notturna. Dieci chilometri (oltre i 25 macinati durante il giorno!). Sono a pezzi. Non ho nemmeno potuto riposarmi, perché sono arrivata tardissimo al campo. Me ne sto sdraiata nel sacco a pelo a masticare una barretta energetica e a guardare le stelle che cominciano a punteggiare il cielo.
Fulvio Massini mette le testa dentro la mia tenda. In mano tiene un bicchierone. «Bevi questo – mi dice -, fa passare i dolori». Lo ingurgito tutto d’un fiato, e dopo mezz’ora comincio a sentirmi meglio. Non voglio nemmeno saperlo, cos’era quel beverone. So che correrò la tappa notturna. Tutta. Perché voglio vedere com’è il deserto di notte. Voglio scrutare la pista illuminata dalla lampada che mi sono infilata sulla testa. Voglio provare a essere sola, nella notte, a seguire i riferimenti delle balises luminose. Voglio sentire il buio e il silenzio. Voglio farcela.
The Big One
L’ho corsa. L’ho fatta tutta di corsa, la tappa notturna. Ma il mattino dopo decido di camminare e basta. Sono a pezzi. Non riesco nemmeno a mangiare. Il mio proverbiale appetito ha lasciato il posto a una preoccupante indifferenza al cibo. Vado avanti a barrette e bottiglie d’acqua. Oggi la terza tappa, la più lunga. Da Campo Pozzo bisogna arrivare a Aouinet Essbat: 35 chilometri. Una pista infinita, dove il terreno compatto lascia sempre più spesso il posto a lingue di sabbia. Si cammina sprofondando. Ormai quasi tutti abbiamo un conto aperto con le vesciche. Già ieri sera la tenda infermeria era affollatissima. Piedi da medicare, crampi, problemi intestinali…
Giovanni e Riccardo mi accompagnano per lunghi tratti: hanno abbandonato ogni velleità di piazzamento, puntando solo ad arrivare. Ogni tanto provano a incitarmi a correre, almeno qualche passo. Ma davvero devo risparmiare le energie. Rischio di farmi raccattare dall’auto-scopa, ed è l’ultima cosa che vorrei.
Oggi mi concedo una lunga, lunghissima passeggiata. Il cielo è di un azzurro compatto. Sembra una carta da parati stesa sopra le nostre teste. Sempre 38 gradi. Un po’ di vento. Ci sono anche i fiori, nel deserto: la rugiada della notte ha fatto spuntare qua e là piccole corolle rosa. I miei amici ridono e scherzano. Ogni tanto si fermano ad aspettarmi. «Stasera ci facciamo almeno tre cartoni di Tavernello, eh?».
Hospital day
Arrivo al campo dopo sette ore di cammino. Ormai il pranzo è andato. La merenda pure. Comunque non ho fame. Ho persino mal di gola. Mi guardo intorno: un ragazzo svizzero si è presentato al medico perché non riesce più a camminare. Lui gli toglie le scarpe. Gli toglie le calze e insieme a queste – come un guanto – sfila via la pelle dei piedi. Carne viva. Renato, che aveva corso con me tanti tratti di strada, è stato costretto al ritiro: disidratato. «Faceva pipì e sangue insieme – raccontano gli altri -. Il dottore lo ha fermato». Peccato, era l’unico che avrei forse potuto lasciare indietro!
C’è uno strano silenzio, questo pomeriggio. Non si parla, ma siamo tutti vicini nella spossatezza che ci accomuna. Solo quando suona la campana della cena, il campo si rianima. Tutti in fila, sotto le stelle, riempiamo i piatti di pasta al sugo, spezzatino, fagiolini, parmigiano. In tavola regna sovrano il Tavernello. E poi si tira tardi con un bicchierino di grappa. Riccardo Fogli (sì, c’è anche lui) suona la chitarra. Si canta, e la stanchezza sparisce.
Just do it!
La meta dell’ultima tappa è Ksar Ghilane, un’oasi nel mezzo dell’Erg. Lì ci saranno bungalow per dormire, ci saranno i gabinetti. Stasera faremo una doccia vera: non dovremo lavarci con l’acqua del camion cisterna, tutti in fila sotto i getti freddi. Ma tra il dire e il fare…ci sono in mezzo 26 chilometri di dune. Di quelle vere. L’ultima tappa è tutta sabbia. Un mare di onde bionde che si perdono all’infinito. Impossibile seguire piste, oggi. Bisognerà procedere a vista. Si punta la prima jeep, laggiù, sul colmo di quella duna, e si cerca di raggiungerla. La strada più breve? Ah, saperlo…
All’inizio è divertente. I piedi sprofondano, bisogna fermarsi ogni dieci minuti per liberare le scarpe dalla sabbia. Molti indossano le ghette, ma nessuno è immune: i granelli sono polvere che si insinua ovunque. Copre la pelle, i capelli, i vestiti, entra nei polmoni…Ma è il deserto. Quello sognato. Sono stanca di togliere le scarpe in continuazione. Decido di camminare a piedi nudi. Non fa ancora troppo caldo – mi hanno detto le guide tunisine – per trovare scorpioni in giro. E comunque decido di rischiare. Non sarò mica così sfigata da beccare l’unico scorpione che si risveglia?
Giovanni e Riccardo mi fanno da scudieri. Camminiamo uno di fianco all’altro godendoci questa passeggiata unica. Ogni tanto sbuca dalla sabbia il teschio di un cammello, lo scheletro di un piccolo mammifero, l’apice di una rosa del deserto. Ho caldo, mi sembra di avere la febbre. Ma vado avanti. Potrei andare avanti fino a morire qui.
I did it!
Gli ultimi chilometri sono durissimi. Mi scoppia la testa. Ho sete. Sono quasi convinta che siano un miraggio, quei cavalli neri che spuntano all’improvviso sul colmo di una duna. I cavalieri ci urlano qualcosa, fanno gesti rassicuranti e poi spariscono in un turbine di sabbia. Già, sono venuti a cercarci. Siamo gli ultimi. Probabilmente temevano che ci fossimo persi. Probabilmente abbiamo anche allungato la strada. Ma siamo quasi arrivati!
Appena vediamo il gonfiabile del traguardo, sotto le prime palme dell’oasi, sembriamo davvero tre miracolati. Ci infiliamo di nuovo le scarpe: un po’ di dignità! Corriamo. Con le ultime forze corriamo. È Adriano Zito a prenderci tra le braccia quando crolliamo a terra urlando, tenendoci per mano. Ci mette al collo la medaglia. Arrivano gli altri amici. Baci, abbracci, ma non capisco quello che dicono. Riesco a restare in piedi giusto il tempo di fare una doccia, poi mi imbottisco di Aulin e Zerinol, e mi chiudo nel bungalow per dormire.
I have a dream…
Mi risvegliano verso sera. Intorno a me ci sono Lella e Dino, Mario e Barbara. Arriva Fulvio Massini con un regalo: una rosa del deserto. Ho la febbre alta. Una febbre che mi ha fatto salire la temperatura e mi ha dato alla testa. Ho deciso: adesso inizio davvero a correre. Sul serio. Il deserto mi ha sedotto. E questi amici che mi sembra di conoscere ormai da anni… E il piacere intenso (unico) di una doccia calda dopo che hai dato tutto te stesso. I have a dream: tornare. Dopo che mi sarò allenata davvero. Tornare per correrla tutta.
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