Dario Pedrotti è un personaggio un po’ particolare. Che mette insieme la passione per lo skyrunning e quella per la scrittura. L’ultima fatica (corse a parte) è Sulle orme dei Giganti, coinvolgente resoconto delle sue partecipazioni alle gare più iconiche di ultra trail.
Di se stesso, Dario Pedrotti dice di essere un orso. E anche sui frontespizi dei libri che scrive, la sua biografia è quanto mai scarna. Prendiamo l’ultimo, Sulle orme dei Giganti (editore Terre di Mezzo): “Dario Pedrotti, nato una cinquantina di anni fa in mezzo alle montagne, un giorno ha provato a correrci sopra e non ha più smesso”.
Eppure questo montanaro prestato alla scrittura (attività che per altro gli riesce decisamente bene), di cose da raccontare ne avrebbe parecchie. A cominciare dalle gare di ultra trail a cui ha partecipato, e che racconta appunto nel suo ultimo libro. Duecentoquaranta pagine che confesso di avere approcciato con poca convinzione (l’ennesima fatica di un impallinato di corsa in montagna?). E invece, pagina dopo pagina, Dario mi ha trascinato con lui tra le vette instillando addirittura in me l’insano proposito di riprendere la via dei monti in modalità trail. “Si chiama istigazione a delinquere – chiosa lui -. Temo sia pure reato, ma nel caso sopporterò stoicamente l’eventuale reclusione”.

Ma cos’ha di speciale questo libro, che a prima vista si propone come una carrellata delle principali gare di ultra trail che si corrono tra Italia, Francia e Svizzera? Tanto per cominciare, Dario non parla per sentito dire: le ha fatte tutte (alcune più di una volta), e tra l’altro con ottimi piazzamenti. In secondo luogo, non le racconta come se si trattasse di un’epopea. Profilo basso, e correre: questo il suo mood. Per lui, come spiega nella prefazione del libro, “il trail running è una forma di meditazione in movimento”. E a differenza di molti (troppi) atleti che si arrampicano tra le montagne convinti di essere super-eroi, Dario ha sempre i piedi ben piantati per terra e ha chiaro in testa il senso delle priorità.
“Non c’è niente di eroico nel terminare una cento miglia con 10.000 metri di dislivello o nel portare a termine il famoso Tor des Géants – scrive -. Ci sono mille occasioni nella vita di tutti i giorni che richiedono molta più forza d’animo di quella necessaria per concludere il Tor: lo sa benissimo chiunque abbia perso il lavoro, abbia un parente ammalato o debba semplicemente crescere i figli”.
Perché mi è piaciuto questo libro? Perché ribalta i luoghi comuni e smentisce l’epica del trail. “Non è vero che il trail running ti insegna a spostare i tuoi limiti più in là (…). Se ti presenti a una gara dove per qualche giorno e qualche notte starai in giro per i monti, è decisamente il caso che i tuoi limiti siano già un bel po’ in là”.
Ecco, viste queste premesse ho affrontato la lettura con uno spirito tutto diverso. E mi sono goduta, al fianco di Dario, le sue salite a perdifiato e i bagni nei laghi ghiacciati. Ma anche gli imprevisti (le gambe che non ce la fanno più, il freddo che rende insensibili le mani, le incertezze sul sentiero da seguire…). E soprattutto mi sono goduta l’aria frizzante e quei panorami che solo chi è stato in montagna può conoscere. Quelle luci speciali, soprattutto all’alba e al tramonto, che ti fanno dire: “ho visto cose che voi umani…”. E una volta letto in due sere il libro, mi è venuta voglia di sapere qualcosa in più del suo autore.

– Chi è Dario Pedrotti, a parte uno sky runner?
“Sono un poco più che cinquantenne, che nella vita ha fatto troppe cose strane per praticare uno sport da persone sane di mente. Sono sposato continuativamente da 22 anni, vivo in un condominio solidale, non possiedo un’auto né una Tv. Con mia moglie abbiamo accolto due bambini in affido, che oggi sono più che ventenni. Faccio le vacanze in bicicletta, sono laureato in ingegneria ma di lavoro sgombero appartamenti con persone che hanno avuto esperienza di carcere. Leggo almeno un libro a settimana”.
– Tu che hai corso per tutte le Alpi e hai conosciuto un sacco di atleti, trovi differenze tra i trail runner “montanari” e quelli che vengono dalla città? (in termini di approccio allo sport, resilienza, resistenza fisica, mentalità, ecc.)
“Essendo un po’ orso, mi alleno sempre da solo e durante le gare parlo poco con gli altri, quindi non ho molti elementi per rispondere. Però credo che i “montanari” abbiano più esperienza di cosa vuol dire passare ore e giorni in montagna, e quindi mediamente sono più pronti ad affrontare anche le situazioni più complicate”.
– A parte le condizioni fisiche e mentali del momento durante le competizioni, qual è il tipo di gara che ti è più consono?
“Risultati alla mano, sembrerebbero quelle a tappe sui 30-40 km al giorno”.
– Hai proposto tu il libro a Terre di Mezzo, o ti hanno chiesto loro di scriverlo?
“Con la direttrice di Terre di Mezzo ci conosciamo da anni per via delle fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili Fa’ la Cosa Giusta! (sono stato per vent’anni il coordinatore dell’edizione trentina) e per comunanza di ideali. Quindi era da un po’ che si parlava di fare un libro insieme”.
– Sei mai stato in situazioni di pericolo vero correndo in montagna?
“Sì, per stupidità mia. Mi sono trovato in inverno in un posto molto pericoloso, sulla neve, e quando mi sono reso conto che stavo rischiando seriamente di finire sotto una valanga, tornare indietro era altrettanto pericoloso che andare avanti. In quell’occasione sono stato fortunato, e da allora sono diventato più prudente”.
– Chi è lo skyrunner che ammiri di più? E perché?
“Quest’anno ho ascoltato alcune interviste di Francesco Puppi, che oltre ad essere un fortissimo atleta, mi ha colpito per la sua schiettezza e la sua disponibilità a mostrare anche le proprie debolezze. Trovo che una intervista fatta da lui a un’altra extraterrestre del trail running, Courtney Dauwalter, sia una delle chiacchierate umanamente più interessanti che mi è capitato di sentire ultimamente”.
– Sei riuscito a trasmettere la tua insana passione a qualcuno (famiglia, amici, colleghi…)?
“Decisamente no: mia moglie gioca a tennis, i nostri ragazzi non corrono neanche per prendere l’autobus, e i miei amici al massimo a volte seguono il mio “pallino” sulla mappa dove si vede in tempo reale la mia posizione nelle gare più lunghe che offrono la diretta GPS”.
– Pensi che arriverà un momento in cui smetterai di correre in montagna? O vedi questa prospettiva come non praticabile? E nel caso, che cosa potrebbe sostituire il trail running?
“Considerando che vent’anni fa non mi sarei mai sognato di fare qualcosa del genere, non so proprio cosa avrò voglia di fare fra altri 20. E poi c’è da considerare che potrebbe anche essere il mio fisico a decidere prima di me che è ora di smettere. In ogni caso nell’altra mia grande passione, l’orienteering, ci sono categorie competitive fino ai 75 anni, alle quali c’è gente che si iscrive anche passati gli 80. Quindi direi che fino a che avrò voglia di correre nei boschi, un posto dove andare ce l’ho”.
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