Hervé Barmasse, definito da Messner uno degli uomini che ha fatto la storia dell’alpinismo, ha aperto con il padre Marco una nuova via sul Cervino. Lo abbiamo intervistato al Trento Film Festival.
E’ bello, è giovane, è simpatico, è alla mano… i complimenti si sprecano, quando si parla di Hervé Barmasse. Non lesina sorrisi a nessuno. Nemmeno ai giornalisti che lo incalzano sempre con le stesse domande, e ai fan in cerca di autografi. Il successo non gli ha montato la testa. Anche se – a onor del vero – Hervé vola alto. Il valdaostano è infatti uno dei maggiori alpinisti al mondo, tanto che il Trento Film Festival lo ha consacrato (per bocca dello stesso Messner) tra gli uomini che hanno fatto la storia dell’alpinismo.
La sua è una famiglia di guide alpine da quattro generazioni. E adesso lui, che ha 34 anni, scala spesso con il padre Marco Barmasse, che di anni ne ha 63. Con lui, nel marzo del 2010 (quindi solo due anni fa) ha aperto una via nuova sulla Parete sud del Cervino: che è stata poi battezzata il Couloir Barmasse. Atleta del Global Team The North Face, Hervé ha al suo attivo una serie di imprese memorabili in tutto il mondo. Ma è sulle Alpi che ha deciso di giocare le sue prossime carte. Lo scorso anno ha varato (e concluso) il progetto “Exploring the Alps”, una trilogia che aveva come obiettivo l’apertura di tre nuove vie su monte Bianco, monte Rosa e Cervino. Sul Rosa, Hervé è stato accompagnato ancora una volta dal padre Marco.
– Come funziona questa accoppiata padre-figlio?
“Mio padre è quello che mi ha insegnato ad arrampicare. Poi per parecchi anni non abbiamo fatto più nulla insieme, e adesso abbiamo ripreso. E la cosa funziona. Perchè abbiamo lo stesso approccio nei confronti della montagna. Ci conosciamo a fondo, e soprattutto ci vogliamo bene. L’età? Quando si scala, certo, la prestanza fisica è importante. Ma la testa non è da meno. Mio padre è salito da secondo, e durante l’ascesa al Cervino sulla nuova via è riuscito a tenere dietro perfettamente al mio ritmo. Per lui è stata dura soprattutto dal punto di vista psicologico: il compito del compagno di cordata è quello di incitare l’altro. Di spingerlo a rischiare per arrivare al traguardo. Ma come padre, questo risulta difficile da fare”.
– E a te capita di avere paura per lui?
“Paura per papà? Assolutamente no. Conosce la montagna e sa quello che fa”.
– Hai deciso di dedicarti ad aprire nuove vie sulle “montagne di casa”. I grandi Ottomila stanno perdendo fascino?
“Quando mio nonno andò in Patagonia, ci rimase sei mesi. Non doveva solo scalare montagne, ma anche mappare tutto il territorio. Insomma, era una vera e propria spedizione. Un’avventura incredibile. Oggi al campo base dell’Everest si chatta su internet e si aspetta il proprio turno per salire. E allora perchè andare così lontano? L’avventura è una questione di creatività. Può essere cercata anche dietro casa. In cima alle Dolomiti si è più soli che sulle vette himalayane classiche”.
– Ma sulle Alpi ci sono ancora pareti inesplorate?
“Ci sono molte pareti ancora inviolate. E altre che sono state conquistate, ma magari non in solitaria né in invernale. Insomma: basta aprire gli occhi e cercarle”.
– La vostra è una famiglia che fa alpinismo da quattro generazioni. E ha visto la tecnica evolversi progressivamente. Quanta importanza ha questo aspetto? E’ grazie alla tecnica che oggi si fanno cose un tempo impensabili?
“Certamente la tecnica e le nuove attrezzature consentono imprese ritenute prima impossibili. Ma la percentuale di rischio affrontata da un alpinista di ieri è uguale a quella che affronta un alpinista di oggi. Se vuoi fare grandi cose, devi rischiare. Ma devi anche avere le capacità mentali per farlo nel modo giusto. Gli incidenti? A parte quelli dovuti alla sfortuna (per esempio la caduta di un sasso, una roccia che frana…), gli altri accadono o perchè si sopravvalutano le proprie capacità, o perchè si sottovalutano i rischi”.
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