Il 25 febbraio scorso è partita da Knik Lake, in Alaska, l’Iditarod Trail Invitational. Probabilmente la più dura ultra del mondo. Tre distanze: 130, 350 e 1.000 miglia (miglia, non chilometri!) attraverso lande innevate, con temperature polari, in completa autonomia, trascinando con sè la pulka (slitta) con tutto il necessario. I nostri Max Marta e Paolo D’agostino hanno portato a termine la 130 miglia. Dopo il racconto di Max, è adesso la volta di leggere quello di Paolo.
Ci sono le gare dove si cercano prestazioni e di superare i propri limiti e, per farlo, ci si allena. Ci sono i viaggi, dove ci si informa per poi andare a scoprire quel pezzetto di mondo narrato in cento libri, visto in mille film o citato nelle canzoni ascoltate ad oltranza suonando un’invisibile chitarra. Si viaggia per vedere un orizzonte, per sentirne l’odore. Ci sono le avventure, dove non hai idea di cosa ti succederà ma speri di essere in grado di affrontare quello che il destino ha deciso per te. Poi c’è l’Iditarod. Questa che vi racconto è il mio Iditarod.
Sono le 13, tra un’ora parte la gara. Seduto sui gradini di legno di una casetta guardo alcuni ciclisti che fanno gli ultimi controlli alle loro fatbike. Gli altri partecipanti sono nel bar a immagazzinare calore e a mangiare. Alle mie spalle una nave è rimasta intrappolata nel mare ghiacciato, è difficile credere che quella pianura innevata celi il mare. Il termometro segna – 7, sono in pieno sole, fa caldo.
Non so cosa aspettarmi, ho fatto una gara simile al circolo polare artico, era di 150 km e non avevo mai dormito. Qui ne dovrò percorrere 210 circa, e la mia idea è quella di rifare la stessa gara e, una volta arrivato al secondo check point (144 km), deciderò cosa fare.
In bicicletta e a piedi
3… 2 …1, si parte! Le biciclette vanno sulla sinistra mentre i corridori muniti delle loro slitte attraversano il lago di fronte allo start. Il terreno non è per niente facile, ha nevicato nei giorni precedenti e la temperatura così alta non ha ghiacciato la neve. I piedi sprofondano, la pulka scivola faticosamente. Alla fine del lago si entra nel bosco e iniziano le colline con i loro pendii, che non sono particolarmente lunghi, ma appena la slitta incontra la salita, è come se il peso aumentasse di 30 kg e bisogna spingere sulle gambe.
Sento il sudore scendermi dalle tempie, bruttissimo segno. Mai sudare!!! Mi tolgo la giacca, l’interno è completamente bagnato. La stendo aperta sullo zaino e continuo con due magliette anch’esse bagnate. La temperatura si abbassa, ho ancora circa un’ora di luce, poi farà più freddo. Sono quasi le 21 e, come da previsione, inizia a nevicare. Prendo il giubbotto che avevo steso, e il freddo ha fatto quello che credevo: tutto il sudore si è congelato, adesso basta sbattere la giacca per farlo cadere. Ora tutto é asciutto, un po’ freddo ma asciutto.
Venti ore al primo check point
La mia pianificazione della gara è già naufragata. È notte, faccio un paio di calcoli e impiegherò circa altre venti ore per arrivare al primo check point. Non ha senso continuare senza fare una sosta, arriverei molto stanco e rischierei di perdermi; questa gara è in auto orienteering e conviene essere concentrati. Poco male, prendo il sacco a pelo artico, mi butto per terra, con la giacca chiudo il buco del viso per proteggermi dalla neve che ancora scende.
Dopo meno di due ore riparto. Che freddo!!! Riaccendo la frontale e via. Tra poco dovrei arrivare al fiume Yentna e, risalendo verso nord ovest, dovrei raggiungere il primo checkpoint. È da ieri sera che nevica. A intervalli di un’ora mangio qualche mandorla, bevo un sorso d’acqua poi riempio la borraccia di neve e la infilo sotto la maglietta per evitare che si ghiacci. Ci si può fermare per pochi minuti, quindi di sedersi non se ne parla. Il panorama di oggi non mi piace. Sono sul letto del fiume ma la neve che cade e una leggera nebbia rendono tutto lattiginoso, non c’è molta differenza tra cielo e terra.
Capelli ghiacciati
Sento una cosa sbattere sul cappuccio, come una fibbia mossa dal vento. Mi distrae, non ho fibbie sul cappuccio. Guardo per capire e scopro che sono i miei capelli che il ghiaccio ha reso un pezzo unico e che il vento fa sbattere. Mi guardo e sono completamente ghiacciato, ma stranamente non ho freddo.
Quando arrivo al check point? Calcolo che mancano circa dieci ore. Ancora dieci ore di cammino sulla neve fresca a tirare una slitta che non ne vuol sapere di scivolare leggera e poi avrò un bicchiere d’acqua calda!
Check point 1, un bicchiere di birra
Ho preferito una birra. Dopo 3-4 ore sono di nuovo fuori. È notte, non nevica e una luna quasi piena mi permette di non usare la lampada frontale. Mi piace camminare nella notte, e quando la luna mi illumina il tracciato mi piace ancora di più. Avere la luce naturale di notte è un regalo che mi mette sempre di buon umore.
È una bella notte. La luna è sulla mia sinistra, il fiume è molto largo ed è pieno di piccole dune, sembra un deserto artico. In lontananza di fronte a me c’è la skyline di un bosco e sopra gli alberi le luci danzanti di due aurore boreali. Sono lontane ma bellissime.
Ormai è chiaro, il cielo è sereno e tra poco sorgerà il sole. Decido di fermarmi e di fare una sosta un po’ più lunga, sono più di dieci ore che sono in giro e ne avrò altre sette davanti. Mangio, bevo e sto un po’ seduto, arriva il sole che illumina la cima di una collina davanti a me. Io sono nell’ombra di una collina che è alle mie spalle.
Momenti di tensione
La temperatura precipita in un istante. Sento improvvisamente freddo. Mi alzo e inizio a mettere via il materassino e a chiudere i tiranti della pulka, ma sono lento, le mani sono intorpidite e rigide. Cerco di chiudere una lampo ma non riesco, mi tolgo un guanto per aiutarmi. Pessima idea! Guardo l’orologio che avevo appeso allo zaino ed è spento, era al 75% pochi minuti fa. Cazzo, cazzo, cazzo, non riesco a dire nient’altro che questo.
La pulka è a posto, devo allacciarla alla vita. Nel chiudere la slitta guardo il giubbotto, le cuciture si sono ghiacciate così come la lampo e il bavero. Cazzo, cazzo, cazzo, devo camminare, devo camminare. Manca solo il secondo paio di guanti e le bacchette. Non riesco a infilarmi i guanti perché non sento più le dita. Fa lo stesso, lascio le mani serrate in un pugno nel palmo del secondo paio di quanti, infilo il laccetto dei bastoncini ai polsi e finalmente inizio a camminare. Non respiro bene, devono essersi congelate le narici. Le dita non riesco proprio a sentirle, stavolta finisce che ne perdo un pezzo. “Un passo dopo l’altro, continua così, respira profondamente e cammina, va tutto bene”.
Lascio il letto dello Yentna andando verso ovest, esco dal cono d’ombra e arrivo al sole. Va tutto bene. Ormai dovrei essere quasi al secondo checkpoint, ma qualche cosa non torna. Non vedo tracce di bici. Ho sbagliato strada. Una parte di me non vuole accettarlo, l’altra rivede il percorso e sa esattamente dove ho sbagliato. Ho allungato di almeno un’ora. Si torna indietro.
Check point 2, l’amico austriaco
Ho mangiato e mi sto riprendendo. Non voglio dormire, sono un po’ arrabbiato per l’errore e ho deciso di partire e chiudere la gara quanto prima. Partirò tra un’ora. Entra Klaus, un ragazzo austriaco che ho conosciuto in aeroporto, un esperto che farà la 1000 miglia (1600 km) per la terza volta. Gli dico cosa intendo fare e chiedo cosa ne pensa. Mi spiega dettagliatamente la tappa che ho di fronte, quanti laghi e quanto sono lunghi, il vento, l’intensità, la direzione e dove mi colpirà, la temperatura e il percepito. Lui parte alle 4 del mattino e, se voglio, posso partire con lui.
Al mattino siamo io, Max e Klaus. Una piccola spedizione. Ho dormito sei ore e mi sento rinato. Ognuno ha il suo passo quindi, di fatto, non siamo proprio una spedizione ma è divertente. Oltre ai laghi c’è da salire una collina, ma la bella notizia è che il vento e le basse temperature hanno ghiacciato la neve e si può andare di buon passo. Dopo la collina si arriva ad un altopiano, il sole sorge alle mie spalle incendiando la cima delle montagne innevate, il cielo è terso e azzurro. Uno spettacolo!
Alla prima discesa mi lascio spingere dalla pulka e inizio a correre, con mia grande sorpresa mi accorgo che funziona tutto. Le gambe corrono, la slitta scivola leggera e mi segue docile. Ora è la giornata perfetta. Corro nella neve, dentro un bosco, circondato da magnifiche montagne, in un giorno spettacolare. Sono proprio felice. A metà strada ci riuniamo allo Shell lake lodge che è aperto e facciamo colazione. Da qui mancano circa 8-9 ore.
Voglia di cantare
Ho male ai piedi e, per non pensarci, inizio a cantare ma non ricordo nessuna canzone quindi improvviso, posso urlare quanto voglio perché non c’è niente e nessuno. In questi posti ci si arriva solo in aereo o elicottero. Credevo mi mettesse un po’ di ansia, invece mi piace l’idea di essere veramente solo. Mi devo inginocchiare per dare un po’ di tregua ai piedi.
Sono su un lago, alle mie spalle la luna piena sopra le montagne, sulla sinistra un bosco e davanti il sole che tramonta dietro ad altre montagne. Su tutto un cielo azzurro. Il giorno sta cedendo il passo alla notte e con il cielo terso sarà una notte molto fredda. Meglio non indugiare oltre e mettersi in cammino, non è ancora finita. È notte, la luna è piena e si riflette sulla superficiale ghiacciata di un lago. Alla fine del lago le luci di un piccolo villaggio. Meglio trattenere l’entusiasmo non si sa mai.
Più mi avvicino e più il villaggio si definisce, le luci sono quelle di un grande albero di Natale ancora addobbato e quelle che definiscono i contorni di un lodge, il vento mi porta l’odore di legno bruciato e mi immagino di sentire il calore del fuoco. Arrivo all’ingresso del paese, appeso tra due alberi c’è un drappo che indica la fine della 130 miglia, sulla sinistra l’indicazione del check point e sulla destra il proseguo del trail. Mi giro e in lontananza, oltre il lago, vedo una luce. È Klaus. Mi siedo e decido di aspettarlo, voglio arrivare e andare a mangiare con il mio nuovo amico di avventura.
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