La nostra infaticabile Giusi, reporter non vedente, questa volta ha affrontato una ferrata e una discesa di rafting in Calabria. E tanto per cambiare, si è divertita un sacco.
L’estate torrida, per quanto ci stia provando, non riesce a fermarmi. Così, in un venerdì di luglio, eccomi in treno pronta ad attraversare quasi tutta l’Italia per arrivare nei pressi di Cosenza. Ad aspettarmi ci sono Gianfranco, istruttore di sopravvivenza e non solo di cui vi ho già parlato in altri articoli, sua figlia Rebecca e l’immancabile Agostino, pronti per un’altra avventura.
In realtà il programma originario prevedeva per tutti un lancio con il paracadute, il secondo per me, nei pressi di Paestum. Purtroppo, a causa di un mancato fornimento di benzina per l’aereo, il lancio salta. Restano in programma la ferrata del Cristo Redentore di Maratea, che avremmo affrontato l’indomani, e il rafting nel fiume Lao per il giorno successivo.
Arrivo dunque a Castiglione Cosentino, dove tutti vengono a prendermi. Ci rechiamo verso casa di Gianfranco per gli ultimi preparativi prima di partire alla volta di Laino-Borgo. Siamo ospiti dell’associazione River Tribe, che dispone di una struttura in cui ci sono bagni, spogliatoi e uffici, e di un’ampia area verde in cui noi quattro piazzeremo il nostro campo base, costituito da amache e teli per la notte.
Il bar aperto accanto all’area e la grigliata mista proposta per cena dai membri di River Tribe mi fanno già capire che non opteremo per la modalità survival riguardo al cibo. Non ci tratteniamo molto dopo cena, viste le poche ore di sonno che ci aspettano.
Sveglia alle 6 del mattino per affrontare la ferrata
Le nostre sveglie suonano quasi in coro per le 06:00. La giornata si preannuncia piuttosto calda, perciò dobbiamo raggiungere la ferrata prima che le temperature e i cavi d’acciaio diventino roventi. Salto giù dall’amaca, veloci preparativi e ci ritroviamo tutti al bar per colazione. Saliamo in auto e, in un’ora circa, arriviamo ai piedi di Monte san Biagio, su cui si sviluppa la ferrata, poco fuori Maratea.
Infiliamo l’imbraco, a cui agganciamo il set dei moschettoni. Calziamo il caschetto e ci avviamo. Imbocchiamo un sentiero di terra battuta in leggera salita e, dopo qualche tornante, agganciamo i moschettoni al primo tratto di cavo d’acciaio.
Questa è la mia seconda ferrata, quindi temo un po’ di rallentare gli altri. Invece inizio a salire con disinvoltura, staccando abbastanza velocemente i moschettoni per passare da un tratto all’altro del cavo. Sono felice, perché ferrate, parchi avventura e simili cose mi divertono molto! Continuiamo a salire, servendoci anche di anelli d’acciaio conficcati nella roccia, da usare sia come appiglio per le mani, sia come piolo per i piedi.
Avverto un po’ di fatica quando arriviamo al primo tratto strapiombante. Costretta ad inarcarmi all’indietro sulla roccia, mi tengo con una mano e con l’altra faccio passare i moschettoni nel tratto di cavo successivo. Saliamo ancora, raggiungendo circa 200 metri di altezza.
“Ecco, davanti a te, in basso, si apre una vallata con piccole case che spuntano nel verde…’ mi spiega Gianfranco raccontandomi il panorama che non posso vedere. “Alle tue spalle… siamo a picco sul mare!” Dopo qualche esclamazione di gioia, riprendiamo la nostra salita. Arriviamo al punto per me più divertente, dove bisogna arrampicarsi sulla nuda roccia senza l’ausilio degli anelli. I tratti in salita si alternano ad altri più simili a sentieri, finchè non arriviamo al punto in cui si apre una via di fuga laterale per chi non ha voglia di affrontare la parte più difficile. Ormai la statua del Cristo inizia ad intravedersi, segno che siamo a buon punto del percorso.
In cima alla ferrata del Cristo Redentore
Saliamo ancora e arriviamo al primo dei due ponti tibetani che caratterizzano l’ultima parte della ferrata. È lungo circa 15 metri, e noi con calma, a turno, ci accingiamo a superarlo. Un breve tratto in salita sulla roccia ci porta al ponte successivo. Come per il precedente, cerco di trovare prima tutti i cavi che lo compongono. Individuo il cavo centrale, a cui agganciare i moschettoni, poi i cavi laterali a cui tenermi con le mani, e infine il cavo su cui camminare. Superato anche il secondo ponte, poco più lungo del primo, manca davvero poco alla fine. Ci attende, però, il tratto più faticoso. Troviamo infatti una parete di 8 metri con uno strapiombo un po’ più accentuato del primo. Ma non lasciatevi intimorire, è davvero breve e la fatica dura pochi istanti.
Ci siamo. Appena superato lo strapiombo, siamo in cima a quota 323 metri s.l.m.. È vero, l’altezza può sembrare poca cosa a chi è abituato alle vette alpine. Ma 300 metri in parete non sono in fondo una bazzecola. Sganciamo definitivamente i moschettoni. Percorriamo un breve sentiero attrezzato in discesa e ci troviamo ai piedi dell’imponente statua del Cristo.
Imbocchiamo quasi subito il sentiero del ritorno. Scendiamo nel bosco, facendo un giro largo attorno al Monte san Biagio. Procediamo fra la vegetazione per più di un’ora, fino all’imbocco della strada asfaltata che ci ricondurrà all’auto. A questo punto torniamo a Laino-Borgo, dove trascorriamo il resto della giornata fra pranzo, chiacchierate, un meritato riposo in amaca e cena. Ancora una volta le scorte di cibo portate nel caso in cui bar e locali fossero stati chiusi restano nello zaino. Per cena , infatti, accettiamo suggerimento di Camillo, amico lainese di Gianfranco, che ci indica una pizzeria del paese.
Alla scoperta di Laino-Borgo
La serata prosegue chiacchierando e mangiando gustose pinse. Terminata la cena decidiamo di fare una passeggiata per Laino con Camillo a farci da guida. Laino-Borgo è un paese di 1.700 abitanti, situato al confine con la Basilicata, completamente immerso nel Parco Nazionale del Pollino. Passeggiamo per il centro storico, con i suoi portali in pietra, mentre Camillo ci racconta di alcune feste folcloristiche del paese. Tra queste il palio con i ciucci, che quest’anno si terrà il 12 e 13 agosto.
Proseguiamo fino al ponte sul fiume Iannello che, come il Lao, attraversa il paese. Ci dirigiamo verso l’auto e, salutato Camillo, rientriamo al nostro campo base, carichi per l’avventura dell’indomani! Questa volta la sveglia è più clemente, la partenza per il rafting è prevista alle 09:30. Poco dopo le 08:00 salto giù dall’amaca e inizio a prepararmi. Fortunatamente anche oggi il bar è aperto e ci accoglie per colazione.
Oltre alla ferrata, anche il rafting in Calabria
È ora, i ragazzi di River Tribe ci consegnano muta e calzari, e ci chiudiamo negli spogliatoi per cambiarci. Appena usciti ci vengono consegnati giacca e caschetto. Abbiamo meno di cinque minuti di pullmino per raggiungere il punto di partenza del rafting. Qui conosciamo Lello, la nostra guida, che inizia con il briefing. Ci spiega le sezioni del gommone e della pagaia, i movimenti che dovremo eseguire e i comandi da fissare bene a mente.
“I primi 2 chilometri sono molto tranquilli e ci serviranno per prendere confidenza con il gommone e le manovre – ci dice -. Poi a circa metà percorso arriveremo a una cascata di 30 metri”. Inizio a chiedermi come supereremo la cascata, mentre Lello ci spiega come dovremo comportarci in caso di caduta in acqua, comunque (pare) poco probabile.
Anche per il rafting è la mia seconda esperienza. Lo avevo provato per la prima volta in Trentino qualche anno fa. In quell’occasione l’acqua del torrente era davvero gelida. Perciò, nonostante il caldo, l’eventualità di cadere in acqua non mi alletta molto… Mentre infiliamo giacca e caschetto, Lello e altri ragazzi di River Tribe fanno scivolare il gommone in acqua.
Siamo in sette sul gommone: Lello al posto di guida nella sezione posteriore, io sul lato destro subito davanti a lui e Rebecca sulla mia sinistra; Gianfranco e Agostino nella fila centrale e altre due ragazze nella fila anteriore. “Bene, possiamo partire! Avanti!”. Iniziamo a muovere le pagaie cercando di coordinarci. Il tratto del fiume in cui ci troviamo è ampio e privo di particolari ostacoli, perciò ne approfittiamo per provare tutte le manovre che ci serviranno più avanti.
“Ci troviamo all’interno del parco del Pollino”, ci dice Lello. ‘Il fiume Lao ha origine in Basilicata con il nome di Mercure. Prende il nome Lao entrando in Calabria. Sfocia nel Mar Tirreno nei pressi di Scalea… Ora stiamo passando fra i boschi, ma superato il primo tratto ci infileremo in uno dei canyon fra i più profondi e suggestivi d’Europa…”.
Si entra nel canyon del fiume Lao
I primi chilometri scorrono veloci e, come preannunciato, entriamo nel canyon. “Questo è il risultato del lavoro dell’acqua. Se allunghi la mano – dice Lello rivolto a me – puoi toccare la parete di roccia”. Lascio una mano dalla pagaia e accarezzo la roccia liscissima e scolpita dall’acqua. Mi emoziono facendolo, quasi come mi succede quando visito delle grotte, colpita da quelle che chiamo “sculture della natura”.
Arriviamo nel primo punto in cui bisogna scendere dal gommone. Facciamo appena dieci metri a piedi o poco più, e risaliamo subito a bordo. Ancora qualche pagaiata, qualche manovra per aggirare alcuni grossi massi, scivoliamo su qualche rapida, e… arriviamo alla cascata! Finalmente mi è chiaro come funziona: ci troviamo sotto la cascata! Scendiamo dal gommone e con pochi passi arriviamo proprio sotto al flusso. Lasciamo che l’acqua ci arrivi addosso rinfrescandoci, e io lascio che lavi via gli ultimi timori di cadere in acqua dal gommone.
Quando risaliamo a bordo, sono contenta e rigenerata. Riprendo la mia posizione. Lello ci racconta che a monte della cascata c’è una grotta, non più accessibile, che diversi anni fa veniva usata come nascondiglio dai briganti. Per questo la cascata prende il nome di Malomo. Un’altra “chicca” nascosta tra le pareti del canyon, più precisamente nel paese di Papasidero, è il santuario della Madonna di Costantinopoli.
Scivoliamo con tranquillità su altre rapide. Non sono adrenaliniche e, sinceramente, ne sono contenta. In questo modo riesco a godermi tutto ciò che mi circonda. Mentre penso a questo, scendiamo di nuovo dal gommone. Gianfranco mi indica un punto in basso nella roccia. Stendo le braccia per raggiungerlo e sento sgorgare acqua freschissima. Ci fermiamo tutti a bere quell’acqua limpida e, in un certo senso, gustosa.
Fuori dal canyon, pronti per il rientro
Pronti ad affrontare l’ultimo tratto con qualche pagaiata, scorriamo rapidi sul letto del fiume fino a ritrovarci fuori dal canyon. Circondati di nuovo da boschi incontaminati, passiamo vicino a quello che rimane di un ponte probabilmente di epoca romana. Ed eccoci al secondo punto in cui bisogna scendere dal gommone per proseguire a piedi. Stavolta dobbiamo uscire dall’acqua e camminare per diversi metri prima di poter tornare nel fiume. Un po’ a fatica cerco di non perdere l’equilibrio camminando su grossi massi. Con l’aiuto di Gianfranco, riesco a superare indenne questo tratto e a tornare in acqua.
Riprendiamo i nostri posti sul gommone per percorrere gli ultimi chilometri. Ormai perfettamente coordinati, scivoliamo velocemente fino al punto di arrivo, dove ci attende l’autista del pullmino con i nostri zaini. Arriviamo in un’area attrezzata, dove possiamo fare una doccia e cambiarci. Restituito l’equipaggiamento, torniamo alla sede di River Tribe, dove dobbiamo smontare il nostro campo base.
Ripieghiamo teli e amache, ricomponiamo i nostri pesanti zaini e, dopo aver salutato i ragazzi di River Tribe, partiamo. Ho qualche treno da prendere… Per tornare a casa o per un’altra avventura? Lo scoprirete presto. Lascio la Calabria con altre esperienze da portare con me e non posso che ringraziare i miei compagni di avventura e i ragazzi di River Tribe! Con Gianfranco e la sua ASD Mazzacana Sospesa c’è più di un progetto in cantiere. Spero di poterne scrivere presto su queste pagine.
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