È stato il più vittorioso discesista italiano nella storia della Coppa del Mondo, e adesso è Ambassador dei Mondiali di Cortina. Com’è nato il “fenomeno Ghedo”? C’è voluta tanta determinazione ma anche tanto dolore. Lo abbiamo incontrato a Milano e ci siamo fatti raccontare la sua storia.
Quello che ti sbatte subito in faccia quando lo incontri, è il suo sorriso. Un sorriso senza filtri. E lo capisci subito che non è una posa di circostanza, perché gli ridono anche gli occhi. Kristian Ghedina ha 51 anni, e Cortina lo ha eletto Ambassador dei Mondiali di sci. Una scelta quasi scontata: lui è stato il più vittorioso discesista italiano nella storia della Coppa del Mondo, e per di più è nato proprio a Cortina.
Uno sciatore non solo vincente, ma anche fantasioso. In ogni gara ci metteva del suo. È rimasta nella storia la famosa spaccata sull’ultimo salto del rettilineo d’arrivo della pista Streif, nel 2004. Un’acrobazia fatta sul filo dei 137,6 km orari.
Del resto per Kristian la velocità e il rischio sono sempre stati pane quotidiano. Un’attitudine nata non per caso, ma indotta forse dall’evento più doloroso della sua vita: la morte della madre. Lei, Adriana Dipol, era stata la prima donna maestra di sci di Cortina. E proprio un incidente in montagna se l’era portata via nel 1985, quando Kristian aveva 15 anni. Lo abbiamo incontrato a Milano in occasione dei Beat Yesterday Awards di Garmin, e ci siamo fatti raccontare la sua storia.
– La tua carriera sportiva non può prescindere da questo episodio terribile. Lo sci ha tolto e lo sci ha dato. Però forse molti al tuo posto avrebbero odiato questo sport…
La morte di mia madre è stata un trauma terribile. Ma io sapevo che lo sci era la sua grande passione. A quell’epoca gareggiavo già nelle squadre giovanili. Ho pensato che lei avrebbe voluto vedermi andare avanti e vincere.
– Tuo padre ti ha appoggiato nella decisione di proseguire nelle gare? Non aveva paura che potesse capitare qualcosa anche a te?
Quando è successo l’incidente, mio padre aveva 38 anni. È sempre stato un uomo molto duro, un montanaro. Mi ha detto: “Comunque sia, la vita va avanti”. Ha lasciato che fossi io a decidere che cosa fare.
– E tu hai deciso di continuare ad allenarti e a gareggiare…
In realtà non ricordo bene quello che successe nei giorni dopo l’incidente. È stato mio padre in seguito a raccontarmelo. Mi ha detto che avrei dovuto gareggiare in un Supergigante a Obereggen, e tutti erano convinti che non avrei partecipato. Il mio allenatore aveva già chiamato casa dicendo che non c’erano problemi, che potevo fermarmi. Ma io non mi sono fermato. Ho voluto fare a tutti i costi quella gara. Sono andato per vincere, perché era quello che la mamma avrebbe voluto. E ho vinto.
– E hai continuato a vincere. Hai un curriculum sportivo stratosferico e hai fatto della velocità il tuo segno distintivo. Sembra quasi una sfida nei confronti del destino. Ma ogni tanto nella tua vita hai mai provato paura?
Due volte. La prima è stata nel ’91, quando sono stato vittima di un terribile incidente stradale. In realtà non ho avuto paura di perdere la vita nell’incidente, ma di non recuperare. Sono stato in come nove giorni, ho riportato fratture e lesioni, e sono stato costretto a una lunghissima riabilitazione. Ma questo non mi ha mai spaventato. Ero sicuro di rimettermi in piedi e di ricominciare, non avevo dubbi. Volevo tornare a sciare. Però avevo subìto anche danni cerebrali che avevano compromesso l’equilibrio e la percezione della profondità. Quando sono uscito dall’ospedale ho preso una bici, sono montato in sella e sono partito. Ma sono caduto. È stato in quel momento che ho avuto paura di non farcela più, mi è crollato il mondo addosso.
– Poi un po’ alla volta hai ripreso a gareggiare e a vincere. Sei tornato ai vertici delle classifiche. E qual è stata la seconda volta in cui hai avuto paura?
È successo in Argentina nel 2000. Ma quella volta me la sono proprio cercata. Per una ventina di giorni mi ero allenato con i compagni in vista delle gare, e nessuno era riuscito a battermi. Ero convinto di vincere facile. Poi ho fatto una vera cavolata: un salto mortale durante una discesa. Qualcosa non è andato per il verso giusto e sono atterrato di testa dopo un volo di 20 metri. Ecco, lì ho pensato di essermi spaccato l’osso del collo e di finire in carrozzina. Per fortuna mi ero soltanto rotto due vertebre. Non ho potuto gareggiare, ma me la sono cavata.
– Perché un malato di velocità come te non ha mai fatto il Km lanciato?
L’ho fatto, in realtà, e ho anche raggiunto i 218 km orari. Ma non mi dava le stesse sensazioni adrenaliniche che ho provato in pista. Quando fai un km lanciato, non hai punti di riferimento, non ti rendi nemmeno conto di andare così veloce. Invece vuoi mettere certe diagonali in pista, quando rischi di finire fuori se non hai abbastanza padronanza degli sci?
– E una volta chiuso con le gare di sci, ti sei messo a correre in macchina. Sempre sensazioni forti…
Sì, però ora ho detto basta anche alle corse automobilistiche. È uno sport che costa troppo, se lo fai ad alto livello. Bisogna trovare degli sponsor. Adesso faccio l’allenatore.
– Per l’ultima domanda, ho tenuto in serbo il gossip. Che ne è della tua vita sentimentale?
(ride) Niente gossip: sono fidanzato da anni con la stessa donna, Patrizia Auer, anche lei sciatrice. La sposerei domani, se devo dire la verità. Il fatto è che non ci mettiamo d’accordo: a me non piacciono le cerimonie, mentre lei vorrebbe un matrimonio tradizionale con l’abito bianco e tanti invitati.
In questo video, la famosa spaccata in volo di Kristian Ghedina sulla Streif nel 2004:
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