La corsa è come una sigaretta per il fumatore: non ne puoi fare a meno, e spesso noto un nonsoché di invidia in coloro che non hanno questo fantastico vizio. Anche il viaggio, la scoperta, è un vizio. Proprio come la corsa, mi piace girare il mondo e scoprire cosa nasconde. Per questo motivo la corsa nei deserti è una passione che unisce questi due “vizi” interminabili.
In una gara in Mali, attraversando i paesi Dogon, lungo la falesia del Bandiagara, ho scambiato uno e più sguardi con molte donne dei villaggi. Erano molto diverse da me, ma ho sentito un filo conduttore, una scossa elettrica di complicità che mi ha invaso il corpo: anche se tanto diverse, in fondo, eravamo uguali, due donne su questa terra, ognuna con i propri problemi. Il nostro scambio di sorrisi e complicità mi ha fatto scattare una molla e la voglia di sfidare e dare coraggio a tutte le donne del mondo. È nato così “RUN FOR WOMEN”: correre in 5 continenti contro la violenza sulla donna. Cinque come 5 sono le lettere che compongono la parola “women” e perché, purtroppo, la violenza sulla donna è un problema che si manifesta in tutto il mondo.
Non è un messaggio rivolto a chi fa del male e a chi maltratta le donne, è un messaggio PER le donne: se io riesco a correre anche per 100 km in un giorno, cosa che prima poteva sembrare impossibile, anche tu puoi riuscire a combattere questo male che stai subendo e che ti sta distruggendo dentro. È un messaggio di coraggio. Coraggio soprattutto di chiedere aiuto, coraggio per fare, e non più per subire passivamente un disagio. Urlare, agire, correre via se necessario. Combattere, perché la vita è una e non va lasciata in mano ai propri carnefici.
Dal punto di vista sportivo e psicologico, non è stato facilissimo. I progetti di lunga durata logorano parecchio. Ho passato un anno ad allenarmi, a sperare di non avere infortuni, a capire se stavo agendo correttamente: mi stavo allenando bene o mi stavo stancando? A volte il confine tra queste due cose è molto sottile, e il rischio di andare in sovrallenamento è sempre vicino (ne ho già avuto uno un paio di anni fa ed è stata davvero dura). In ottobre tutto ha avuto inizio e sono partita per il Sahara: 250 km in autosufficienza in 5 tappe (la sesta ed ultima erano solo 2 km). È andata bene, un primo posto e quinta assoluta: Huber Rossi (www.marathoncenter.it) e Luca Taverna (il mio allenatore e il mio mental coach) avevano lavorato molto bene. Mi sentivo carica, così ho deciso, dopo nemmeno un mese, di partire anche per l’Oman: 170 km. Poi è stata la volta del deserto dell’Atacama in Cile (230 km), delle Blue Mountains in Australia, e ora delle Rocky Mountains in Colorado. Quasi 1000 km di gare in 11 mesi. Sono arrivata al podio in 4 gare su 5, e questo mi ha dato molte soddisfazioni.
L’imprevisto è arrivato alla vigilia dell’ultima fatica (un mese prima): durante un allenamento mi sono rotta 3 legamenti della caviglia. Quando ho sentito “crack” ho pensato immediatamente all’ultima gara che dovevo fare e ho pensato che, non finendola, non avrei potuto urlare il mio messaggio a testa alta. Non volevo e non potevo fallire proprio alla fine. Ho concentrato ogni mia cellula, ogni mio pensiero, ogni mio “non lo so” sulla mia caviglia, tutti i santi giorni. Ho cercato di non darmi mai per vinta. Io potevo farcela. Il “Gila” (il dottor Gilardi del Centro Hiso, www.hiso.it), il mio guru della fisioterapia, mi ha aiutato come sempre e, grazie alle cure e agli esercizi, la caviglia ha avuto un grosso miglioramento: dopo un mese, 200 km di gara tra i 2.700 e i 3.600 metri di quota ho guadagnato un secondo posto. Non so se questo mio “messaggio urlato” ha aiutato o aiuterà qualche donna. Io ho dimostrato che tutte ce la possiamo fare, l’importante è non perdere mai la voglia e la forza di combattere per la propria felicità.
Per informazioni su Katia e sui suoi progetti:
www.xcorsi.eu
Il Progetto Run for Women è sostenuto dalla Fondazione Fondiaria Sai, impegnata nelle iniziative finalizzate a promuovere l’emancipazione femminile nell’ambito dei progetti WOMEN to be, promossi per dare maggiore visibilità a tutte le iniziative finalizzate alla crescita sociale, economica e culturale della donna che la Fondazione porta avanti da anni. Katia, alla fine di ogni gara, ha spiegato sul traguardo uno striscione a sostegno dell’iniziativa, compiendo un gesto simbolico teso a lanciare un messaggio di speranza per l’emancipazione delle donne che in diverse aree del mondo vivono ancora in condizioni difficili.
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