Un viaggio in Giappone diventa l’occasione per correre la Mezza Maratona di Osaka e confrontarsi con atleti che hanno una filosofia di gara diversa da quella occidentale. Qui la resa non è mai contemplata.
È vero che il Giappone sia un paese dai forti contrasti, e basta niente per rendersene conto. Il castello medioevale di Osaka è circondato dai grattacieli della finanza che troneggiano tutto attorno, come a voler emarginare il ruolo del passato nell’anima odierna della nazione. Osaka è la terza città del Giappone, una metropoli di 3,7 milioni di abitanti che si gonfia e si sgonfia ogni giorno con l’arrivo di ondate di pendolari. È domenica mattina presto, ma sembra un giorno feriale qualunque. Per le strade incrociamo studenti in divisa e uomini incravattati con la 24 ore, questa gente non si ferma mai.

Io sono qui per correre la Mezza Maratona di Osaka. In realtà il viaggio non è stato programmato in funzione della gara, ma non potevo perdere questa occasione. Ci avviamo zaino in spalla verso il luogo della partenza, allestita a bordo del fiume Yodo, che dai monti attraversa la metropoli per sfociare nella baia di Osaka.
Un interprete solo per noi
Ieri pomeriggio siamo stati accolti magnificamente dagli organizzatori. Miss Yokoama San ci ha messo a disposizione un interprete solo per noi prima di presentarci al comitee organizzativo al completo. Ne siamo rimasti molto lusingati. La cosa che però mi ha colpito di più è stata conoscere la medaglia d’oro olimpica di maratona a Sidney, Naoko Takahashi, un’atleta formidabile oggi in “pensione” che ci ha dato un caloroso benvenuto. I giapponesi sono persone molto timide e riservate, a volte è difficile perfino incrociare il loro sguardo, e sovente arrossiscono quando si esce dallo schema convenzionale del dialogo, eppure conservano una grande forza d’animo, la stessa che li rende degli atleti formidabili sull’asfalto.

Non mi sarei mai lasciato sfuggire l’occasione di correre insieme a loro, non qui nella loro terra. I nipponici hanno maturato un’esperienza immensa nelle corse su strada, nel loro paese le Eikiden (staffette su strada) raggiungono uno share televisivo pari alle finali di calcio.
Niente code per il bagno
Il prato è coperto da persone che si muovono da una parte all’altra come formiche laboriose. Chi corre, chi stira le gambe, chi chiacchiera… la frenesia di questa gente non si arresta, si propaga. A me pare un sogno potermici misurare. Ci dirigiamo allo stand degli organizzatori per salutarli e lasciargli in consegna gli zaini, poi abbozziamo un paio di giri di prato per riscaldarci. C’è profumo di adrenalina nell’aria. L’organizzazione dell’evento è impeccabile. In realtà assomiglia molto a una delle tante gare podistiche che ho corso in passato, ma i dettagli si sprecano. Per la prima volta assisto a code per il bagno cortissime, e non c’è nemmeno una cartaccia per terra.
Quando notiamo la moltitudine che si riversa ai blocchi di partenza, capiamo che è arrivato il momento di prendere a nostra volta posizione. Anche lo sparo è puntuale come i treni Shinkansen che abbiamo preso fino ad oggi per muoverci sull’isola. È uno sparo che mi riporta alla mente mille ricordi di maratone passate. La gente attorno a noi si tuffa in avanti, non ho quasi spazio per correre.
Resto imbottigliato molto indietro rispetto alla linea di partenza, il primo chilometro lo passo praticamente facendo lo slalom per uscire da quella prigione di gambe. Il percorso è pianeggiante, l’asfalto lascia a desiderare, ma non c’è una bava di vento e il sole è tiepido. Condizioni ottimali per correre. Scorriamo come un serpente lungo le rive dello Yodo, mentre dall’altra sponda del fiume qualche pescatore ci osserva incuriosito.
Ho qualche difficoltà a sincronizzarmi con un passo regolare, chi mi precede corre troppo lento e chi mi supera va troppo forte. Dopo 4 chilometri mi accorgo che non ne ho corso uno uguale all’altro, ma la media mi dà comunque ragione, a questo ritmo chiuderei con un buon tempo. Poco a poco il serpentone si sgrana e si formano grandi buchi di spazio tra un gruppetto e l’altro. Accanto a me un giapponese che avrà una decina di anni in più mi affianca con aria perplessa. Credo sia la prima volta che corre spalla a spalla con un occidentale. Ci teniamo compagnia per un paio di chilometri, poi decide di accelerare in prossimità di alcuni grattacieli sulla riva sinistra e sparisce velocemente.
Osaka è veramente immensa. Stiamo correndo da diversi chilometri e il centro città è ancora fuori dalla nostra vista. Mi avrebbe fatto più piacere transitare per i vialoni urbani piuttosto che lungo questo torrente cementificato che non sa di niente, ma va bene così.
Al giro di boa del decimo chilometro si vira di 180 gradi rispetto alla direzione da cui siamo venuti. Comincio a sentirmi molto stanco, troppo stanco. Faccio mente locale per capire a cosa sia dovuto. Forse l’allenamento di martedì nel parco Meiji Ori a Tokyo, o quello notturno lungo il Kamo River di Kyoto hanno lasciato il segno. Forse ho esagerato spingendo troppo e ora ne sto pagando le conseguenze?
Al quindicesimo chilometro la luce si spegne. Di colpo le energie si esauriscono, lasciandomi in balia del peso del mio corpo. Cerco di oppormi come posso, ma non c’è verso. Perdo di colpo il contatto con il gruppetto che mi precede, poi lentamente mi faccio superare da un atleta dietro l’altro. Cinque chilometri all’arrivo, cinque chilometri e la facciamo finita, mi ripeto. Ma cinquemila metri possono rivelarsi una distanza eterna quando non sei più in grado di mettere un piede davanti all’altro. È un miracolo se non mi fermo. Da quando sono arrivato in Giappone non ho fatto altro che dormire poco e camminare tanto, non proprio la miglior ricetta prima di una mezza maratona.
Non si fanno prigionieri
L’ultimo chilometro è un calvario. Arrivo talmente spompato che riesco a malapena a reagire al tentativo di superarmi da parte di un giapponese. Rispondo al suo sprint più per cortesia che per buon senso, poi mi lascio cadere a terra esausto. È un rammarico non aver saputo dare di più in terra nipponica, ma assaporo comunque la gioia di essermi misurato con una filosofia di corsa così diversa dalla nostra. Probabilmente se avessi corso in Europa avrei seriamente rischiato di ritirarmi, ma qui la resa non è contemplata.
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