Sono le 15.37 dello scorso 26 febbraio quando Simone Moro, uno dei più famosi alpinisti al mondo, specialista nelle scalate in invernale senza ossigeno, arriva sulla vetta del Nanga Parbat insieme ai suoi due compagni di cordata, lo spagnolo Alex Txikon e il pakistano Ali Sadpara. A fermarsi a poche decine di metri dalla cima, invece, è l’unica donna del gruppo, l’alpinista altoatesina Tamara Lunger. Ma il suo è un “fallimento” che si rivela provvidenziale: perchè rientrando prima dei compagni al campo base e accendendo la luce della tenda, li guida nel buio verso la salvezza.
Montagna assassina
La storia è stata già raccontata. Simone e Tamara, atleti del team The North Face, hanno incontrato più volte il pubblico e i giornalisti per ricordare le vicende di quei giorni: la decisione di unirsi alla cordata di Daniele Nardi e poi le tristi polemiche con l’alpinista romano; il successivo “patto di solidarietà” con Txikon e Sadpara; la decisione di montare l’ultimo campo a mille metri dalla cima per non soffrire troppo l’altitudine, e poi di partire alle sei del mattino successivo anzichè prima, per non congelare nel buio della gelida notte invernale. E poi la salita immane. Il Nanga Parbat, la “killer mountain” (è qui che morì anche il fratello di Reinhold Messner) è una montagna di dimensioni paurose: “Tanto per avere un’idea, il Monte Bianco ci sta dentro 40 volte”, ha spiegato Simone ieri sera, presentando alla Libreria Rizzoli di Milano, insieme a dj Linus, il suo nuovo libro “Nanga” (Rizzoli, 19 euro).
Tamara in affanno
La notte in tenda prima dell’ultimo rush è un calvario, ha ricordato Simone: due materassini sono stati strappati via dal vento, e i quattro alpinisti devono dormire su quelli che sono rimasti, messi per traverso. Gli zaini sotto le gambe, e gli scarponi come cuscino. Il mattino dopo, la salita si rivela più dura del previsto, e Tamara (che è tra l’altro in pessime condizioni a causa del ciclo mestruale) non riesce a tenere il ritmo degli altri tre. “Noi ci fermavamo ogni sette passi per respirare, mentre Tami doveva fermarsi ogni quattro. Bisogna pensare che lassù persino muovere un braccio o parlare diventa un’impresa titanica. La carenza di ossigeno e la temperatura percepita di -50° stremano anche i fisici più allenati”, ha raccontato Simone.
Una rinuncia generosa
E poi, le vicende già note: a poche decine di metri dalla cima, Tamara Lunger rinuncia. Non vuole rallentare la salita dei compagni e nel suo intimo è convinta di una cosa: se raggiungerà la vetta, non ritornerà mai più a casa. Una scelta difficile, combattuta, ma che alla fine salva la vita sia a lei che – probabilmente – agli altri tre alpinisti. Tamara fa marcia indietro, e sulla via del ritorno cade. Precipita per un lungo tratto e rischia addirittura di non rialzarsi più. Ma si fa forza, e nonostante sia a pezzi riesce a raggiungere la tenda. Il sole sta tramontando.
“Avevamo calcolato di impiegare un’ora a scendere dalla vetta e tornare al campo base, perché in discesa siamo molto veloci”, ha raccontato Simone Moro. “Ma la salita ci aveva stroncato e ne abbiamo impiegate quattro. Avremmo dovuto arrivare con la luce, e invece ci siamo ritrovati immersi nell’oscurità, tra i crepacci. Procedevamo in una direzione che pensavamo essere quella giusta. Poi, all’improvviso, da tutt’altra parte, abbiamo visto accendersi una luce: era Tamara, arrivata alla tenda, che ci aspettava”.
Tredici anni in un libro
Già nell’estate del 2003 Simone aveva provato ad arrivare in vetta al Nanga Parbat, ma il tentativo era fallito. Da allora, per 13 anni, non ha mai smesso di “corteggiare” la montagna assassina. Tredici anni e tre tentativi invernali fatti di imprevisti, sorprese, nuove vie e nuove cordate, valanghe e bufere di neve, crepacci, grotte di ghiaccio, venti a 200 chilometri orari e cieli limpidi. Tredici anni che ora racconta nelle pagine di un libro davvero emozionante, scritto con il linguaggio semplice con cui lui è abituato a parlare. “Del resto – ha rivelato Simone – questo libro l’ho registrato al telefono durante i tragitti in macchina. Perché io non so scrivere. Mi sono messo a parlare a ruota libera… e poi sono state le editor Rizzoli a sbobinare tutto e a mettere i miei racconti nero su bianco!”.
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