Al Trento Film Festival, Nives Meroi ha presentato il suo libro ‘Non ti farò aspettare’. Un’occasione per intervistarla e per parlare di donne e montagna.
Durante il Trento Film Festival abbiamo incontrato Nives Meroi, la più grande alpinista italiana, la donna dei dodici 8.000, che si trovava lì per presentare la sua ultima impresa: non una cima questa volta, ma il suo secondo libro, edito da Rizzoli e intitolato “Non ti farò aspettare” (il primo, Sinai, l’aveva scritto con Vito Mancuso). L’intervista, tenutasi nella sala stampa del Trento Film Festival , ci ha rivelato una donna tenace quanto umile, discreta e forte, una compagna su cui contare, nella vita così come nello sport per l’alpinista Romano Benet. Ne è nato un racconto di vita, in cui la passione per la montagna diventa metafora della vita stessa, come lei ci racconta in questa chiacchierata intima fra conterranei.
Bergamasca di nascita e friulana d’adozione: dico bene?
“Si, sono nata a Bonate nel bergamasco, vivendo poi fra quel paese, Palazzago e Chiari, finchè motivi di lavoro di mio padre ci hanno portato a trasferirici in Friuli che è poi la sua regione d’origine, a Tarvisio. Un paesino di montagna in cui tutti sciano e per quanto mi riguarda, una volta finito il periodo delle “garette”, ho iniziato a guardare più in alto, là dove finivano gli impianti. Ed è a partire da quel momento che “sono entrata nel tunnel” della montagna!”
Fra l’altro i tuoi natali, associati a quelli di Bonatti e Moro, ribadiscono che Bergamo è terra di grandi alpinisti. C’è una relazione fra il luogo in cui si nasce e le proprie aspirazioni?
“Secondo me sì. Secondo me c’è una relazione con la terra in cui nasciamo: noi siamo figli del nostro passato e senza passato non c’è neanche un futuro. Perciò le nostre radici sono sicuramente fondamentali ed è per questo che tengo fortemente alle mie radici bergamasche”.
La più grande alpinista italiana (Nives sorride a queste parole, ndr) come e dove ha mosso i suoi primi passi in montagna?
“Io e Romano abbiamo iniziato ad andare in montagna per gioco sulle Alpi Giulie, dove viviamo: ed è un cammino nato sotto i piedi, passo dopo passo: mai avrei pensato di salire le montagne, descritte nei libri d’alpinismo che leggevo! Non ci sentiamo alpinisti “professionisti”, perché non abbiamo mai scelto delle imprese a tavolino, ma ogni spedizione è nata grazie a un’idea che si accendeva, cercando poi qualche soldo che ci permettesse di realizzare quello che era soltanto un desiderio, una curiosità. Ma poi sui libri ci sei finita veramente, anche grazie ad un alpinismo femminile ancora sul nascere e condotto poi con molta coerenza… Sì, la presenza femminile a quei tempi era irrisoria. L’alpinismo e ancor più quello himalayano sono stati terreno prettamente maschile e la stessa storia di queste imprese è scritta al maschile. Le difficoltà che ho dovuto affrontare, riguardavano più quella mentalità poco abituata e per nulla pronta ad accogliere le donne, che non le salite. Le salite non le ho mai vissute come una difficoltà, perché sono sempre partita senza l’ambizione di arrivare in cima, ma con la voglia di compiere un passo dopo l’altro, consapevole del bagaglio di conoscenze e competenze acquisite sul campo, sulle montagne di casa: pensa che la mia spedizione su un 8.000 era un tentativo di aprire una via nuova sulla nord del K2, che si è conclusa a 8.450 perché non si poteva più avanzare. È iniziata con un fallimento… “.
Sarà stato un fallimento, ma ti deve essere piaciuto molto se poi sei ritornata più volte in quelle zone…
“Mamma mia! Fin dalla prima spedizione sul Karakorum mi sono resa conto che la parte alpinistica è solo un pezzo del viaggio. Altrettanto importante sono la fase di progettazione della spedizione, l’organizzazione, così come la partenza, senza contare poi tutti i giorni necessari per avvicinarsi al campo base, alla montagna. Durante quei giorni vivi un “acclimamento mentale”, nel quale hai tempo di goderti la terra che attraversi… Se viaggi in elicottero, in “velocità”, non puoi accorgerti dei dettagli: solamente se ti muovi al ritmo del passo hai la possibilità di ricominciare a prestare attenzione ai particolari. Particolari nei quali, ormai l’ho capito, si nasconde la realtà. È per questo che il ritmo del passo è fondamentale per ricominciare ad osservare: solo così hai modo di incontrare le persone, intuire come vivono, mettersi nei loro panni ed anche avvicinarsi con pazienza alla montagna che tenterai di salire. Ed in questa lentezza immagino ci sia modo di riflettere molto… Fin dalla prima spedizione mi sono resa conto che il nostro stile di vita è concesso solo ad una minoranza, mentre per tutti gli altri – fra cui quelle popolazioni incontrate nelle mie spedizioni – è concesso un altro destino. Ed è fondamentale riuscire a vedere, a toccare con mano – è con i polpastrelli che si decifra, no? – perché tutto ciò ti permette di mettere un po’ di ordine nella tua scala personale dei valori”.
Valori che si scorgono chiaramente nella tua maniera di affrontare la montagna senza portatori e bombole, ma anche nell’atteggiamento che ti unisce e ti ha portato alle cime solo con la presenza di tuo marito. Dimostrazioni di coscienza?
“Salgo senza portatori d’alta quota perché non mi va di mettere a repentaglio la vita di nessuno per una mia scelta. E senza ossigeno, in modo da salire nella maniera più leggera ed essenziale, perché il confronto con la montagna possa essere onesto: vado fin dove mi è possibile arrivare e se non riesco torno indietro, perché il fallimento in certi casi è la vittoria più importante. La scelta invece di vivere tutto ciò con Romano è fondamentale perché se solamente uno dei due vivesse esperienze così profonde, il rischio è che non si parli più la stessa lingua. Il fatto di viverle insieme, oltretutto ciascuno dalla sua prospettiva, dà poi la possibilità di integrarle e far sì che la condivisione diventi ancora più ampia e più ricca. Sono stati tutti quei passi fatti insieme, che ci hanno dato gli strumenti per affrontare quelle che sono, ahimè, le montagne vere della vita: nel nostro caso la malattia di Romano. Ci è venuto naturale affrontarla così come si affrontano tutte le montagne: un passo dopo l’altro, con pazienza e soprattutto senza mai scoraggiarsi. Se riguardo ora da questa posizione un po’ scostata alla scelta di non arrivare in vetta al Kangchenjunga (per un malessere anticipatore della leucemia del marito, rinunciando così alla corsa che la vedeva in lizza per essere la prima donna a conquistare tutti i 14 Ottomila della terra, ndr), mi rendo conto che con quel gesto ho dato il mio senso alle montagne che ho salito, così come a quelle che non ho scalato.
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