Vi abbiamo già raccontato di Paul Pritchard e della parabola della sua storia. Ora vi proponiamo un’intervista, così che anche voi abbiate la possibilità di avvicinarvi ancor di più a questo climber anomalo e ispiratore.
Paul Pritchard – l’alpinista gallese giunto a Bergamo, Varese e Poschiavo sulla spinta della rassegna Il grande sentiero – ha un fascino e un carisma che è impossibile spiegare. Se è vero che tutti i grandi alpinisti, nel momento in cui condividono le loro imprese sanno contagiarti il loro entusiasmo, facendoti partecipe di quei loro sogni che hanno poi avuto il coraggio di vivere, è altrettanto vero che l’energia e la vitalità che Paul sa trasmettere è molto più forte. Perché? Non lo so… L’unica risposta che mi sono dato è questa: Paul è così, perché ha saputo sognare persino un incubo.
Tengo a precisare che l’intervista che segue comprende domande poste da me personalmente a Paul, così come altre poste dal pubblico durante la conferenza. Il tutto è stato mediato dalla traduzione di Luca Calvi.
– Il tuo primo incontro in terra bergamasca è stato in una casa di cura: cosa ci dici a riguardo?
«Ritengo importante che ciascuno faccia la sua parte: da parte mia, ritengo fondamentale dare una sorta di incoraggiamento a coloro che stanno vivendo quanto ho vissuto anch’io, mostrando attraverso la mia “realtà”, la mia storia, che ci sono ancora tante altre possibilità. Son ben cosciente, comunque, che chi mi ascolta ha la propria personale storia ben diversa dalla mia: devo stare attento quando dico che l’incidente è stata la miglior cosa che mi sia capitata…. Non è detto che sia così anche per le altre persone!».
– In effetti non è da tutti arrivare ad una simile affermazione: come ci seri riuscito?
«Se non avessi avuto la lezione dell’arrampicata e dell’alpinismo, non credo sarei mai giunto a realizzare un simile pensiero. In Patagonia, durante una spedizione, abbiamo dovuto aspettare 6 settimane, per poi mettere in campo tutta la determinazione possibile, per arrivare alla cima. Ci vuole pazienza: bisogna aspettare, aspettare, aspettare e poi al momento giusto mettere in campo tutta la determinazione».
– Cosa ricordi della tua convalescenza dopo l’incidente?
«Non ho ricordi particolari…Ho però indelebile in mente il momento in cui mi sono messo a piangere, quello in cui ho venduto tutta la mia attrezzatura alpinistica, pensando che non l’avrei più utilizzata. Ho vissuto mesi in uno stato di depressione, finché piano piano ho incominciato a capire… Alla fin fine, dopo un anno, mi ero rotto di essere depresso!».
– Chi è quindi Paul Pritchard oggi?
«Sono un climber, uno scrittore (ndr: i suoi testi “Deep Play” e “Totem Pole” hanno vinto entrambi un importantissimo premio per la letteratura di montagna), uno studente di letteratura inglese (manca solo un anno alla laurea), ma soprattutto un padre con due figli».
– Come alpinista, cosa hai lasciato andare, cosa non ti appartiene più?
«Dopo l’incidente, sapevo perfettamente che non avrei più potuto arrampicare ai livelli di prima; ho però riscoperto la soddisfazione di arrampicate più semplici e di dare un nuovo sapore a situazioni e circostanze che altrimenti sarebbero state insipide… Qualcosa ho perso, ma qualcosa ho anche guadagnato!».
– Alla luce di quanto dici, l’avventura era dunque più “saporita” prima dell’incidente?
«Io credo che la vera avventura sia arrivata dopo il mio incidente, perché da quel momento me la ritrovo in ogni aspetto della vita. Per questo ripeto spesso che vincere è slegato dall’aver successo: una parete con un grado di 3c prima era una stupidaggine che nemmeno prendevo in considerazione. Fatta nelle mie attuali condizioni è invece un’esperienza davvero incredibile».
– Così come è incredibile la tua ascesa al Kilimangiaro: hai in programma altre spedizioni?
«Dopo i 6000 metri del Kilimangiaro, vorrei affrontare un 7000… Resta il fatto che scalare per me è un po’ doloroso: sento male al ginocchio ad ogni passo, ed è per questo che ho preso così passione con quel triciclo che vedrete in “The journey”, il racconto della mia triciclettata di 26 giorni in Himalaya. Prossimamente mi piacerebbe attraversare l’Australia: son circa 1.800 km».
– Prima mi parlavi dei tuoi figli…
«Mio figlio ha 7 anni e mia figlia 10: entrambi arrampicano, e sto con loro una settimana sì e una no. Sono loro certamente a rappresentare la mia avventura più bella. A proposito di avventura, mio figlio vorrebbe attraversare la Mongolia a cavallo con me…».
– Hai battezzato “The Cure for a Sick Mind” – “La cura per una mente malata” – una delle tue vie più difficili: perché quel nome?
«Quella parete ha pochi rinvii, è v’è il rischio di farsi un volo di 35 metri: Johnny Dawes, il mio compagno di cordata, quel giorno cadde e si prese un sacco di paura… Quando aprii la via, decisi quindi di darle quel nome, perché se anche Johnny fosse riuscito a percorrerla avrebbe trovato tramite la “terapia della paura” una cura a quel brutto volo. Solo percorrendola sarebbe guarito dalla paura…».
– Hai un motto, una frase che ti ripeti spesso, come fosse un mantra?
«Sì, è “Disabled, but non unabled” (Disabile, ma ancora abile). Se ci pensi e guardi il vocabolo “disabile” sul dizionario, è molto facile trovare spiegazioni che parlano in termini di incapacità: non sa…, non può…. e cose di questo genere. Espressioni che non rappresentano ciò che io cerco di testimoniare e in cui non è giusto identificarsi».
Personalità come Paul Pritchard hanno stimolato la curiosità e l’ammirazione del pubblico, e infatti molte altre domande sono state poste all’alpinista (domande che per questioni di spazio non abbiamo però modo di riportare). Riporto invece l’emozionato intervento da parte di uno spettatore: un ragazzo di Saluzzo, affetto anch’egli da un emiparesi, che oltre ad esprimere ammirazione nei confronti dell’ospite gallese, lo ha ringraziato per avergli ispirato una lunghissima emozionante triciclettata che lo condurrà a Santiago di Compostela direttamente dal Cuneense. Che ne dite, non sarebbe bello raccontare anche la sua storia?
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