Abbiamo faticato un po’, ad accorgerci di avere in casa uno dei più grandi alpinisti viventi. Perchè lui, Simone Moro, non è tipo da “tirarsela”. Anzi. Di se stesso dice: «Non sono il migliore, ma sono bravino». Se non è il migliore, comunque, poco ci manca. Perchè questo “ragazzo” bergamasco di 44 anni si è specializzato nientemeno che nella salita degli Ottomila in inverno. E lo ha fatto con una maturità che di rado alberga nella mente di chi sceglie le imprese estreme. Una maturità che lo porta anche – quando è necessario – a rinunciare. E soprattutto a non vergognarsene.
È successo con l’ultima impresa, il tentativo di ascesa invernale al Nanga Parbat, sulla stessa via già tentata da Messner. Moro è stato molto criticato per questa rinuncia. Ma lui va diritto per la sua strada. «Ho sempre cercato di scoprire quale fosse il segreto del successo degli alpinisti famosi – dice -, e alla fine ci sono riuscito. Ho scoperto che non hanno paura di raccontare le proprie sconfitte».
E ancora, Moro non finge – come tanti – di schifare l’aspetto commerciale del suo lavoro. «L’Everest? – dice – Se vai lassù sulle vie normali, è un’autostrada. Sono arrivati in cima un cieco, uno zoppo, un uomo con gli arti artificiali. E allora non capisco perchè tanti si sono scandalizzati della mia decisione di accompagnare in vetta Vittorio Brumotti con la bicicletta. Non la spaccio per un’impresa alpinistica. Questa è un’operazione commerciale». Simone Moro non ha peli sulla lingua, è un’altra delle sue virtù.
Persino Messner, di solito avaro di commenti, di fronte alle imprese di Moro si è più volte lasciato andare. Quando il bergamasco – primo al mondo insieme a Denis Urubku e Chory Richard – ha concluso felicemente la scalata invernale del Gasherbrum II, ha ammesso che Moro aveva fatto «un grande lavoro». E detto da Messner, ha suonato come una sorta di “investitura ufficiale” dell’erede.
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