Quarantaquattro anni e 44 spedizioni alpinistiche alle spalle. Una “insana” passione per la salita degli Ottomila in inverno, e la voglia di scrivere un libro che raccontasse gli episodi salienti della sua vita. Ma quando trovare il tempo per farlo? Così Simone Moro ha deciso di mettersi a scrivere tra un’arrampicata e l’altra, niente meno che durante l’ultima impresa, appena conclusa insieme a Denis Urubku e sponsorizzata da The North Face: il tentativo di ascesa invernale al Nanga Parbat.
La sua fatica letteraria, La voce del ghiaccio (ed. Rizzoli, 18 euro) è nata proprio sotto le tende dei campi, con temperature polari che costringevano Simone Moro a scaldare l’hard disk prima di usare il computer. Come ha raccontato lui stesso alla presentazione del libro.
«Dovevamo usare il fornello a cherosene – ha spiegato -, perchè c’erano temperature di -30. In più c’era una puzza tremenda di combustibile che riempiva tutta la tenda dove io e Denis dormivamo. Non potevo scrivere nella tenda cucina: perchè lì i fornelli bruciavano l’ossigeno». Certo, dedicarsi alla letteratura in una tenda piena di cherosene può presentare qualche rischio.
«Un giorno – ha raccontato il kazako Denis Urubku, amico e “fratello di cordata” di Simone Moro – lo sherpa è venuto a chiamarci per il pranzo. Io e Simone ci siamo alzati, e siamo crollati a terra. Ci stavamo intossicando. Se non fosse arrivato lo sherpa, ci saremmo addormentati in un sonno mortale». «Questi sono i veri pericoli della montagna», ride Simone.
Una spedizione, quella di Moro e Urubku sul Nanga Parbat, che non ha mancato di suscitare polemiche. Perchè i due scalatori, dopo un mese di maltempo e con previsioni pessime, alla fine hanno rinunciato. Ma Simone, come ha puntualizzato lui stesso, non considera la rinuncia un fallimento. Piuttosto, «un appuntamento ritardato». «In invernale tutto cambia – ha detto Simone Moro -. Bisogna prendere decisioni completamente diverse rispetto a un’ascesa estiva. E quando parlo di invernale, parlo di invernale “pura”. Cioè effettuata completamente nel periodo più freddo. Perchè molti attrezzano le pareti in autunno, e poi tornano in inverno per affrontare salite già pronte».
Di invernali tout-court alla conquista di un Ottomila, insomma, non se ne contano tante. «Per questo tipo di imprese – ha continuato Simone – bisogna affinare un sesto senso. Saper fiutare il pericolo come fanno gli animali. Se cerchi di correre ai ripari quando il pericolo è già manifesto, è troppo tardi. Bisogna saperlo anticipare. Nel 2008, quando ho affrontato la prima invernale del Broad Peak, ho rinunciato a meno di 200 metri dalla vetta (196 per la precisione). Ma mi sarebbe servita ancora un’ora e mezza per arrivare in cima. Il sole sarebbe tramontato dopo due ore. E il mio compagno di cordata era molto indietro. Cosa facevo, salivo da solo? A me piace condividere. Se arrivo in cima da solo, non ho nessuno da abbracciare. E poi ho una moglie e due figli: non vale la pena di morire per un sogno».
E adesso? «Adesso riparto dal Nanga Parbat». Non solo come alpinista. Simone Moro, infatti ha già cominciato a mettere via – come dice lui – “la cassetta degli attrezzi” per la sua seconda vita. Quella in cui smetterà di tentare grandi imprese. Ma non sta certo pensando di aprire un negozio di caccia e pesca. No: lui sta imparando a guidare gli elicotteri tra le vette più alte, in condizioni meteo estreme. Per organizzare un servizio di soccorso che possa aiutare le popolazioni locali in caso di necessità. «Là non ci sono strade, non c’è il 118 da chiamare se qualcuno sta male, e i bambini camminano due ore per tornare da scuola – ha spiegato Simone -. Quelle montagne mi hanno dato tanto. È giusto che adesso cominci anche io a dare qualcosa a loro».
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