Simone Moro è alpinista tra i più grandi, e il suo curriculum di ascensioni non lascia alcun dubbio in merito: oltre al suo essere uomo di montagna, ritengo sia doveroso riconoscergli una personalità schietta e pragmatica – come le montagne stesse – che si pone davanti ai media con naturalezza, senza nascondersi, indipendentemente dal fatto che si parli delle sua vita sportiva o personale. A dimostrarlo l’ultima sua spedizione sul Nanga Parbat, i fatti raccontati e documentati nel film “High Tension” e la sua attività di soccorso in alta quota.
Durante il Trento Film Festival appena concluso, Moro è stato protagonista di una serata dal tema davvero originale: il valore della rinuncia. E in questa occasione ha raccontato quelle sue spedizioni che pur non concludendosi con l’arrivo in vetta, si sono rivelate occasione di spunti e riflessioni positive.
Prima di incamminarsi su tale argomento, sul palco si è parlato dell’incidente avvenuto fra il campo base ed il campo 1 dell’Everest, costato la vita a 16 nepalesi, non solo sherpa ma anche gurung e tamang. Precisazione – quest’ultima – che Moro ci ha tenuto a fare per due motivi: ribadire quanto sia importante dare dignità a quelle persone e al loro sforzo per rendere praticabile il versante sud, e per sensibilizzare l’opinione pubblica affinché questa tragedia possa generare dei cambiamenti ormai necessari. In tal senso, ha suggerito l’alpinista bergamasco, sarebbe auspicabile un tipo di turismo che non si concentri solo sulla valle del Khumbu: se si obbligasse a salire altri Ottomila prima di ritrovarsi al cospetto dell’Everest, ci sarebbe una più diffusa distribuzione di ricchezza (le spedizioni costano dai 30 ai 100 mila dollari) oltre a un aumento di sicurezza.
Dopo questo incipit, è stato introdotto il vero argomento della serata analizzando alcune spedizioni di Simone Moro (che è atleta del team The North Face) concluse senza cima. L’elencazione non è mai stata un inno agli “sfigati” – come lui stesso ha ribadito – ma un’occasione per comprendere l’importanza e la funzione della rinuncia, declinandola in ogni contesto.
Ad introdurre il primo episodio, uno spezzone di “Exposed to dreams” nel quale un Moro dispiaciuto e rattristato alza bandiera bianca, rinunciando al concatenamento di Everest e Lhotse senza ossigeno supplementare, per via di una colonna di 240 persone in direzione Colle Sud: “Era davvero come essere a Gardaland”, disse in un’intervista. In quel caso il desistere dipese dall’affollamento della via e dalle circostanze che obbligavano il nostro a salire al ritmo del gruppo: andamento che sarebbe stato per lui fatale, oltre a rappresentante un tipo d’alpinismo dal quale voleva dissociarsi.
Il secondo episodio è legato al film “High Tension”, sul quale Moro ha ribadito – visto il suo ruolo da protagonista – la difficoltà di descrivere oggettivamente quanto accaduto. Se l’opinione pubblica può avere dubbi sulle dinamiche dell’accaduto, non ne può avere sulla moralità di coloro che – pur trovandosi a pochi metri dalla colluttazione – preferirono filmare la scena invece di tentare una mediazione fra Moro, Steck, Griffin e il gruppo di sherpa intenzionati a farsi “giustizia” con pugni e sberle. La rinuncia all’impresa, in quella situazione, giunse dall’esterno: da quella rissa che venne poi sanata senza rancori grazie al dialogo e alle scuse reciproche con gli sherpa “anziani”. Per essere infine davvero dimenticata grazie al successivo salvataggio del facinoroso da parte di Simone Moro, condotto oltre i limiti posti dall’assicurazione.
A seguire si è parlato di Annapurna e della tremenda valanga del 25 dicembre 1997 che travolse Anatoli Boukreev, Dimitri Sobolev e Simone Moro: solo quest’ultimo riuscì a sopravvivere, raggiungendo il campo base dopo esser stato trascinato per centinaia di metri. La rinuncia in quell’occasione fu tra le più difficili, perché soprattutto affettiva, legata alla perdita di due compagni, e in particolare di Anatoli a cui Simone era legato da profonda amicizia. Non a caso, negli anni a seguire, Moro ha stretto un sodalizio – professionale e affettivo – con Denis Urubko, anch’esso kazako. E non a caso ha seguito le tracce di quell’elicotterista che la notte di Natale arrivò a salvarlo sull’Annapurna, diventando anch’egli soccorritore.
È stata poi la volta dell’avventura sul Broad Peak e di una rinuncia dal sapore profondamente diverso. Moro era a meno di 300 metri dalla cima e la sua impresa sarebbe stata la prima salita in invernale su un 8.000 del Pakistan. Ma decise di tornare sui propri passi. A sostenerlo in questa decisione, la solidarietà per il compagno di cordata affaticato e in ritardo (si trattava dell’alpinista pakistano Shaheen Baig) e la prospettiva di toccare la vetta alle 16, orario mortale per qualsiasi bivacco invernale nel Karakorum. Analoghi inconvenienti non dissuasero poi la spedizione polacca del 2013, i cui membri conclusero l’ascesa verso le 17.30-18.00, strappando così una prima storica che costò però due vittime.
Le diapositive si susseguono, ed ecco il campo 4 del Lhotse, teatro nel 2001 di un salvataggio in alta quota. L’alpinista Tom Moores, dopo esser caduto dalla parete, rimase in attesa dei soccorsi allertati dal suo compagno di salita. Simone Moro rispose senza esitazione, operando in condizioni davvero estreme per via dell’altitudine, dell’orario notturno e dell’impossibilità da parte dell’inglese – rimasto senza ramponi e picche – di muoversi in maniera indipendente. Quel gesto lo sfiancò e non gli permise il concatenamento previsto, ma gli valse molto di più: la medaglia d’oro al valore civile e l’imperitura gratitudine di Moores, che si considerò da allora un redivivo e ogni anno in corrispondenza del proprio compleanno rivolge un pensiero a Simone Moro.
Il Nanga Parbat ha chiuso il sipario sulla serata, attraverso le due rinunce datate 2012 e 2013, dovute soprattutto ad un tempo atmosferico inclemente. Questa cima resta così, insieme al K2, l’unico 8.000 ancora inviolato in inverno. Del resto Simone non sembra avere nemmeno l’intenzione di cimentarsi con il K2 in versione invernale. Il perché è legato a un sogno di sua moglie, in cui Moro proprio tentando questa impresa fa un brutta fine.
Tirando le somme, bellissima serata in cui si è riusciti a sdoganare il giornalismo tradizionale e il malumore degli sponsor, che non sempre comprendono le motivazioni delle imprese che si arenano. L’intelligenza mediatica di Moro ha infatti sapientemente trasmesso un messaggio alieno da retorica e buonismi, ribadendo come sia importante talvolta tornarsene a casa, senza vetta, se si vuol vivere a lungo come gli inarrivabili maestri Messner, Bonatti o Cassin. La rinuncia – ha sottolineato numerose volte Moro – è fisiologica e inevitabile quando si alza l’asticella in alto, quando si tenta qualcosa di disumano o quando semplicemente si vuole vivere davvero.
© riproduzione riservata