Simone Moro non è solo un grande alpista. È anche un fantastico affabulatore. E lo ha confermato presentando il suo ultimo libro, Siberia -71° (ed. Rizzoli). Il racconto della spedizione nella terra più fredda del mondo, insieme all’altoatesina Tamara Lunger.
“Non ci crederete, ma anche gli alpinisti leggono i giornali. Così un giorno, leggendo il Corriere della Sera online, ecco che trovo il solito articolo sul meteo, l’arrivo del freddo polare, i posti dove la temperature è più bassa, eccetera. E scopro che c’è una zona della Siberia dove si sono registrati addirittura 71 gradi sotto lo zero. Ecco, da lì è cominciato tutto”.
Milano, libreria Rizzoli, presentazione del libro Siberia -71°. Simone Moro, il re degli Ottomila in versione invernale, è lì con quella che è la sua ultima compagna di scalate, l’altoatesina Tamara Lunger. Insieme, come racconta Simone nel libro, all’inizio di quest’anno si sono avventurati nel posto più freddo del mondo per scalare il Pic Pobeda, la montagna più alta della Yacutia.
Una montagna di tutto rispetto
“Il Pic Pobeda – ha raccontato Simone – rispetto agli Ottomila su cui sono abituato a muovermi è una bazzecola: 3.003 metri. A quella quota sull’Himalaya non si monta nemmeno il primo campo base. Ma questa montagna fa parte di una catena lunga 1.500 chilometri, e nessuno mai l’aveva scalata in inverno a causa delle temperature micidiali. Persino Tamara all’inizio aveva dato forfait: troppo freddo, aveva paura di rimetterci le dita dei piedi”.

Ma Simone è fatto così: quando si ficca in mente una cosa, è difficile distoglierlo dalla sua idea. Tanto più che il destino sembrava averci messo lo zampino. Un suo commento all’articolo del Corriere (“Che figata!”), aveva sollecitato la risposta di un bergamasco trasferito in Russia e sposato con una donna del posto. Il loro figlio, giornalista, aveva appena realizzato un servizio sui camionisti che lavorano lungo le piste siberiane. “Insomma, in pratica avevo già trovato la mia guida-interprete”, riassume Simone.
C’è anche lo sponsor
Detto fatto, l’alpinista presenta il progetto al suo sponsor The North Face, che accoglie con entusiasmo la proposta. “Hanno capito che l’esplorazione non è soltanto verticale. A volte non è necessario arrivare a quote pazzesche per mordere l’avventura”. Alla fine anche Tamara accetta la sfida, e i due partono accompagnati dal fotografo-alpinista Matteo Zanga.
L’impresa di Simone e Tamara comincia appena appena arrivati a Yacutsk. Temperatura -42,6°. Una volta scesi dal furgone Uaz 4×4, sembra che i polmoni scoppino. Il “campo base” dei due alpinisti è il villaggio di baracche dei nomadi che vivono ai piedi delle montagne e allevano renne. Senza il loro aiuto, è impensabile poter arrivare sulla cima del Pic Pobeda. La neve è così polverosa, che persino con le ciaspole si affonda fino al petto.
Sono i nomadi, una volta che hanno accettato di aiutare gli “stranieri”, a battere con le motoslitte le piste di accesso alla montagna. Un lavoro interminabile, che nonostante gli sforzi progredisce al massimo di 4 chilometri al giorno. Intanto i due alpinisti per acclimatarsi passano ore all’aperto sugli sci o spaccando legna. Un lavoro compulsivo, l’unico che permette di scaldarsi a quelle temperature. Tamara mena fendenti come un taglialegna, e si conquista “sul campo” il rispetto dei nomadi.
Il resto è una storia di attesa. Attesa per provare i nuovi materiali approntati da The North Face; attesa fino a che la pista di accesso alla montagna è battuta; attesa che il meteo sia giusto per sfidare la vetta. Nelle giornate più belle, con il cielo blu e l’aria nitida, è meglio non rischiare: perché il freddo non perdona. Se c’è la nebbia, invece, il termometro sale ma il paesaggio si perde in un magma bianco in cui è impossibile orientarsi. E allora bisogna aspettare il sole pallido.
Una prima invernale diversa dal solito
Poi, l’11 febbraio, via: si parte! Una scalata senza soste, portando con sè solo integratori. Tamara e Simone raggiungono la vetta in poco più di 7 ore, e ne impiegano altre 4 per fare ritorno. Quindi 11 ore in totale per coprire una distanza complessiva di 27,3 km e 2.042 metri di dislivello. “E non mi si venga a dire che è stata una passeggiata – ci tiene a sottolineare Simone -. Si è trattato di una scalata lunga, caratterizzata da passaggi estremamente tecnici e dall’impossibilità, in caso di caduta, di essere raggiunti dai soccorsi”.
Ma non solo una scalata, tirate le somme: bensì una vera avventura. Un’avventura che – ascensione del Pic Pobeda a parte – Simone Moro si sente di consigliare a tutti coloro che amano i viaggi e la natura, e hanno sete di esplorazione. Perché la Siberia è davvero rimasta una terra di frontiera: distese di ghiaccio percorse da camionisti solitari, cercatori d’oro e cacciatori di pellicce. E poi animali selvatici. E brividi, tanti brividi. Provocati non solo dal freddo. Perché quella strada che approda a Jakutsk attraversando per oltre 2.000 chilometri la Siberia è stata costruita a forza di picconate dai prigionieri dei gulag. Ne morivano fino a 60 al giorno, stremati dal freddo e dalla fatica. Nessuno si prendeva la briga di seppellirli, ma i loro corpi finivano tra le pietre e la ghiaia di quella che è stata ribattezzata “strada delle ossa”.
Il cortometraggio della spedizione sarà reso disponibile nel corso dell’inverno 2018. Per maggiori informazioni sulla data esatta di uscita: @TheNorthFace su Facebook e @TheNorthFaceUK su Instagram.
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