Non se la tira, Steve House. Perchè lui sa – e l’ha sperimentato sulla propria pelle – che quando si arriva in alto, si può anche precipitare.
Lo vedi, ed è il classico ragazzo della provincia americana: camicia a quadrettoni, jeans, sneakers e un taglio di capelli improbabile. Non se la tira, Steve House. Perchè lui sa – e l’ha sperimentato sulla propria pelle – che quando si arriva in alto, si può anche precipitare. E allora bisogna ricominciare. Con umiltà, con fatica. Non è solo una metafora della vita, quella che lui stesso ha raccontato durante il Trento Film Festival a una platea di centinaia di persone. Ma anche la storia di un incidente alpinistico.
Steve House è uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi. Non solo ha aperto nuove vie sulle pareti più impervie del mondo: ma ha anche dato vita a un nuovo modo di scalare. “Più veloce, più leggero”, è il suo motto. Vale a dire: si sale con il minimo indispensabile per la sopravvivenza. E si cerca di arrivare in cima il più in fretta possibile.

“Da ragazzo ero come tutti gli altri – ha raccontato -. Vivevo in Colorado, in un posto dove si usa il cavallo per andare al saloon. Giravo in pick up e cercavo di rimorchiare le ragazze. Ma non ero molto fortunato. Così mi sono dedicato alla montagna”.
E quella sì, che è stata una scelta fortunata. Steve House inizia a scalare in Slovenia, da ragazzino. Poi in Himalaya, dove tenta con una spedizione il Nanga Parbat. Ma ha solo 19 anni. Gli mancano esperienza e forza fisica. Ci ritorna dopo 18 anni e centinaia di ascese, insieme a Vince Anderson. L’idea è quella di arrivare in vetta lungo il versante Rupal. Una scalata continua di 4.500 metri, che avrebbe richiesto almeno 5 giorni in parete. Ce la fanno, e Steve entra nella leggenda.
Al loro ritorno, i due scalatori scoprono improvvisamente di essere diventati due star. Ricevono il Piolet d’Or, vengono intervistati, finiscono sulle copertine dei giornali. Un successo che li lascia quasi interdetti. “Alla cerimonia dei Piolets d’Or – ricorda Steve House – Vince si è presentato con una t-shirt di Bruce Lee…era tutto nuovo per noi”.

Dopo quella tappa memorabile, Vince molla il colpo. Si sposa. Comincia a pensare anche ad altro. Mentre Steve continua a essere preso dal sacro fuoco. Continua a scalare, spesso in solitaria. Fino al tragico incidente sul Monte Temple. Una caduta di 25 metri sulla roccia, e due ore in attesa dell’elicottero. Le sue ossa sono a pezzi. Le botte gli hanno massacrato gli organi interni. Ci vogliono mesi di riabilitazione. E quando finalmente Steve House si rimette in piedi, riprende la via delle montagne. “Molti si sono stupiti del fatto che volessi ricominciare ad arrampicare – ha detto -. Ma per me scalare è come respirare“. Tredici mesi dopo l’incidente, parte per il Makalu.
Oggi, a 42 anni, Steve sta pensando al futuro. Anche lui si è sposato. “E dopo tutto quello che mi ha dato la montagna, ora è arrivato il momento che sia io a donare qualcosa”. Insieme all’amico fraterno Vince Anderson, ha creato Alpine Mentors, un programma di formazione per assistere i giovani che vogliono diventare alpinisti. E che nello stesso tempo raccoglie fondi per consentire ai bambini delle zone himalayane di andare a scuola, con borse di studio e somme che vengono utilizzate per pagare gli insegnanti.
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