Una gara di 10 giorni nell’outback australiano, 520 km in autosufficienza e con acqua razionata. Fatica, sudore, sete, polvere. Ma anche un viaggio alla scoperta di se stessi e dei veri valori della vita.
È notte, guardo dietro le mie spalle e vedo l’aurora, mi sento bene, sono in piedi dalle quattro di ieri mattina. Appena mi sono svegliato ho pensato: “Oggi è l’ultimo giorno, ora mi alzo e corro a più non posso, fino alla fine. Questa tappa la voglio chiudere il prima possibile”. Il secondo pensiero è stato: “Devo correre 137 chilometri!”
Sto correndo The Track, una gara di 10 giorni nell’outback australiano. Dieci giorni in autosufficienza, con acqua razionata. Questa è l’ultima notte. Il Garmin mi ha abbandonato ormai da un po’, anche la schermata dell’orologio si è bloccata, l’unica cosa che funziona è il cronometro. Il che non è male, perché ho imparato a calcolare la mia velocità e i chilometri percorsi.
Aspettando di avvistare l’Uluru
Ho passato l’ultimo check-point, dovrebbero mancare 20, forse 25 chilometri. Mi sento bene, stranamente riesco a correre e, ancora più stranamente, è l’unica cosa che ho voglia di fare. Lo zaino ormai è molto leggero, non ho più cibo. Se avessi ancora una manciata di uva sultanina o 5-6 albicocche disidratate, sarei più tranquillo. Mi rimane la frutta secca, ma l’idea di mangiarla mi nausea.
Comunque manca poco, non devo preoccuparmi. Cerco di intravedere la forma dell’Uluru sulla mia sinistra. Ora sto costeggiando uno dei pochi pezzi asfaltati dei 520 km nel deserto che separano la partenza dalla fine. Ricordo la mappa: a pochi chilometri dall’arrivo dovrò girare a sinistra per buttarmi nel territorio aborigeno e correre ancora su quella bellissima terra rossa.
Le prime luci dell’alba sbiadiscono le stelle. Adesso lo vedo, vedo il monte sacro sulla sinistra. Lancio l’assalto, un cartello mi avverte che sto entrando nel territorio aborigeno. Tutto davanti a me ha colori pastello: i campi verdi, il cielo azzurro pallido, le nuvole viola. Uluru baciato dal sole è arancione, e il sentiero su cui sto correndo è rosso. Mi sento felice. Svuoto una borraccia, voglio essere ancora più leggero…

Nella mia mente rivedo tutto il viaggio
Penso ai primi giorni di gara e sono così lontani, sembrano persi nel tempo e mai mi sarebbe venuto in mente di svuotare una bottiglia. Nella seconda tappa avevamo affrontato un dislivello positivo di 1.000 metri, il percorso era complicato e non era stato possibile avere i rifornimenti d’acqua, per cui ci era stato dato un litro in più, e il mio zaino pesava quasi 13 kg.
Avevo raggiunto l’unico check-point dopo più di 7 ore, e avevo bevuto circa 2,5 litri d’acqua. La temperatura era tra i 35 e 39 gradi. Ero disidratato e privo di forze, anche se non me ne rendevo conto. Solo quando non ero riuscito ad aprire la borraccia avevo capito che ero messo maluccio… non ero capace di alzare il beccuccio sul tappo. Avevo dovuto stringerlo con i denti e usare tutte e due le mani.
Ogni volta che salivo sulla cima di una collina cercavo di scorgere l’arrivo, ma vedevo solo il sentiero che scendeva, girava per poi risalire su un’altra collina, una striscia chiara che segnava campi e rocce. Avevo impiegato quasi 2 ore e mezzo per percorrere gli ultimi 10 chilometri.
Nell’ultimo tratto della tappa avevo deciso di non guardare il Garmin, non volevo avere nessuna brutta sorpresa. Davanti a me avevo visto un ragazzo dell’organizzazione. Non volevo chiedere quanto mancava, ma non ho resistito. Secondo me ancora mancava un chilometro ma, se lui era là, significava che forse erano 400 metri…magari da dietro quell’albero avrei visto il campo base.
Due chilometri che non finiscono mai
Mi ero stupito del suono della mia voce, era quasi un rantolo. Ero disidratato. Ma era stata la sua risposta soprattutto ad avermi demolito. Mancavano più di 2 chilometri. In quel momento era stato come se mi avesse detto che non dovevo smettere mai di camminare, come in un girone dantesco avrei dovuto andare avanti per tutta l’eternità.
Erano quasi 10 ore che avevo quello zaino sulla schiena. Un fardello che, a quel punto, mi sembrava ancora più pesante. Le spalle mi facevano male, era un dolore che si irradiava nei muscoli. Le gambe erano pesanti e inciampavo continuamente. Volevo accasciarmi a terra e basta, ero esausto, sporco, sudato, accaldato, affamato e disidratato. E non avevo ancora finito il secondo giorno. Mi ero fermato un momento per bere, non mi ero seduto per terra perché non mi sarei più alzato. Mi guardavo attorno, e quello che vedevo era bello. Dovevo fare ancora solo 2 km. Ero esattamente dove volevo essere.

I pensieri svaniscono, ritorno al presente
Smetto di correre e cammino, ora Uluru è di fronte a me. Tutto è piatto tranne questo enorme monolite rosso. Mi rimetto a correre…
La preparazione di questa gara era stata difficoltosa. Mi ero infortunato e, per sei mesi, non ero riuscito a correre, o meglio, non ero riuscito a correre più di 6 km senza poi dovermi fermare per il dolore al tendine della gamba destra. Ma fortunatamente, a 30 giorni dalla partenza, ero riuscito a fare 9 km senza provare dolore. Essendo un inguaribile ottimista, non vedevo problemi. Avevo organizzato una ventina di allenamenti di circa quattro ore l’uno ed ero partito.
The Track è un’avventura, un viaggio in cui la meta è lontanissima. Passo dopo passo, giorno dopo giorno. Tutto è faticoso: il caldo, la terra sabbiosa, lo zaino che ogni ora è sempre più pesante, il non potersi lavare, dovere prepararsi il cibo, prendersi cura di se stessi con le uniche cose che si portano appresso: il coltello e il nastro adesivo. Il qui e ora sono le uniche cose importanti.
Provare fatica ma non poterla sentire perché non finisce al termine della tappa, in quel momento hai solo finito i chilometri da percorrere quel giorno. Ci sono momenti in cui non hai più le forze, a volte perché sono ore che sei da solo e non vedi nessuno, neanche all’orizzonte, e questo ti fa calare addosso un po’ di sconforto. Altre volte perché il sole ti sta bruciando.
Si riprende forza grazie al contatto con la natura
Quando corri su letti di fiumi asciutti, l’umidità che sale dai sassi caldi ti toglie l’aria. In quei momenti ti ritrovi a parlare ad alta voce o a cantare. Vorresti fare di più, ma quello che stai facendo è già il massimo e non ci puoi credere. Ci sono momenti in cui le forze ritornano, basta solo respirare, sentire un profumo tra gli alberi, il vento che ti dà sollievo, l’odore della terra, guadare un fiume o uno stormo di uccelli che si alza in volo. Tutto ad un tratto ritorna la forza, svanisce lo sconforto.
Non ho mai realmente capito cosa infonda tutto questo. Ho abbandonato da tempo l’idea della performance, perché non ti fa vivere quello che accade e ti rende concentrato su valori per me del tutto inutili. Per quanto può sembrare strano, la forza la ricevi da quello che ti circonda. Anche facendo calcoli ottimistici tra quello che mangi e quello che consumi, non sarebbe possibile poter correre. Eppure sto correndo.
Questi ultimi chilometri sono uno spettacolo. È l’alba e c’è un gran silenzio, probabilmente le persone all’arrivo stanno dormendo. Quindi, per quanto mi sforzi, non riesco a sentire nessun rumore. Tum, tum, tum… solo il suono della mia corsa sulla terra sabbiosa. L’arrivo sarà sicuramente dopo quella curva. Niente, solo la strada che prosegue…

Cos’è essenziale e cosa non lo è? Quello che più colpisce è che meno si ha, e più si condivide.
I campi base sono semplicemente uno spazio dove trovano posto 20 piccole tende, e ognuna ospita due partecipanti. Tutto quello che ti serve per 10 giorni è nel tuo zaino, quello che non c’è non puoi averlo perché è impossibile comperarlo. Quando ti viene offerto, sai che è una cosa rara e di grande valore perché, a quel punto, l’altra persona non lo avrà più e se ne priva solo per aiutarti.
Alla partenza ci era stato detto: “Siete nel deserto, e nel deserto si fanno le cose essenziali. Lavarsi non è essenziale”. Quindi nei campi base non ci sono bagni, se escludiamo i due buchi usati come water. Siamo in un parco, quindi sporcare non è possibile. Qiuaranta persone in due buchi! Se vuoi lavarti devi usare l’acqua che ti è stata data per bere e per farti da mangiare. La terra è la sedia, il tavolo, il divano, il letto. Una volta ho trovato un sasso piatto che ho usato come sgabello… era comodissimo!
La sabbia è il sapone per pulire la tazza che usavo anche come pentola. La sabbia mi serviva anche per lavare le mani quando erano troppo sporche. Risparmiavo sempre un po’ d’acqua per togliermi la sabbia dai piedi. Un’operazione che facevo sia al campo base, sia ad ogni check-point. Mi toglievo le scarpe, mi toglievo le calze e le pulivo per quanto mi era possibile, poi lavavo i piedi cercando di eliminare la sabbia. Era una routine.
Controllavo che un piccolo problema rimanesse tale. Un’abrasione si trasforma in un piccolo taglio, che si trasforma in una lacerazione… e correre o camminare diventa difficile e molto doloroso. Una volta rimesse calze e scarpe, controllavo il colore della pipì per verificare lo stato di idratazione e poi ripartivo.
Dopo il quinto giorno ho dovuto aumentare l’attenzione perché la pelle era più sensibile allo sfregamento, le abrasioni erano più profonde, e ho iniziato ad usare il nastro per proteggermi.

I piccoli riti quotidiani al campo base
Una volta arrivati al campo, iniziava un’altra parte del giorno, fatta di abbracci e piccole chiacchiere, di attenzioni verso gli altri e soprattutto verso se stessi. Prepararsi il cibo, curarsi e rimettersi a posto, andare – se necessario – dal medico (unico posto dove era possibile sedersi su una sedia), preparare la tenda per la notte. Mettere le cose nei soliti posti, così non le devi cercare al mattino.
E poi mettersi davanti al grande fuoco al centro del campo per far asciugare le scarpe e gli abiti o, semplicemente, per scaldare il cibo. Il grande fuoco era la piazza di paese dove ci si vedeva. Se eri da solo, era una specie di televisione dove, tra le fiamme, potevi vedere i tuoi pensieri. Un falò davanti e un cielo tempestato di stelle sopra, il vento portava l’odore di eucalipto. Per quanto stanco, le notti erano sempre magnifiche.
Lo sterrato prosegue su una salita che mi riporta alla realtà e ne sono certo: da lì vedrò l’arrivo. Questa idea mi moltiplica le forze e accelero l’andatura, arrivo alla fine della salita e ancora nulla. In fondo alla strada vedo delle bandiere, le raggiungo ma indicano un villaggio turistico che dovrebbe essere da qualche parte. Inizio a sorridere, mi sento come un animale in caccia, e l’arrivo è la mia preda. Non puoi più nasconderti oltre, ormai è finita.

Il segno che ha lasciato The Track
È passato un po’ di tempo da quando ho finito The Track. Le gare di questo tipo lasciano sempre un segno che, con il passare il tempo, si affievolisce. Oltre ai segni, c’è un’altra cosa che ti lasciano, o forse è meglio dire che ti tolgono degli strati. Ci si ritrova sempre un po’ più sottili di quando si è partiti.
Questa gara ha avuto la capacità di togliermi tanti strati. Per 10 giorni sei senza nulla, e questo apre la strada a una nuova prospettiva. Sembra che stare a stretto contatto con le cose essenziali abbia dissolto in me le attenzioni che si concentravano su altre cose che mi sembravano importanti fino a poco tempo prima.
Non sono sparite, lo vedo, queste cose ci sono ancora ma hanno semplicemente perso tutta la loro importanza. È come una pagina di giornale bruciata che ancora riesci a leggere, ne vedi le immagini ma sai che basta un alito di vento per distruggerla. E non ti importa nulla, perché per te in fondo è già distrutta.
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