Circa un anno fa, in occasione dell’iscrizione a un extreme triathlon, mi fu chiesto di mandare in mio curriculum delle gare. Non sono uno specialista di nulla, anzi mi piace affrontare gare sempre diverse e, a dire il vero, non le vivo mai come gare ma come esperienze per capire e conoscere sia me stesso che posti stupendi e persone incredibili. Fatto sta che quando andai a ritirare il pacco gara, gli organizzatori mi dissero che avevano un’altra sfida giusta per me. Avendo altro a cui pensare, non diedi molto peso a cosa mi stavano proponendo. Ma appena completato il triathlon la curiosità iniziava a farsi strada.
Questa strana competizione si chiama RIG ossia Raid International Gaspesie. Iniziamo dalla fine del nome, Gaspesie, che è una regione del Quebec. Il nome deriva dalla parola Gaspè, che nella lingua locale dei Mi’Kmaq significa “fine della terra”. Questa regione è una penisola situata sulla sponda sud del fiume San Lorenzo e delimitata dal golfo dello stesso fiume, nell’estremo est del Quebec. La sua forma a me ricorda la testa di Alien. Ricapitolando abbiamo la bellezza della natura del Quebec, la fine della terra e la testa di Alien. La decisione è presa: si va nel Gaspesie!
Ma cos’è un Raid?
“Viaggio avventuroso che comporta la percorrenza di una lunga distanza e il superamento di resistenze o limiti naturali, fino a quel momento rispettati o inviolati”. Questo è quello che recita Wikipedia. In questo caso bisogna aggiungere che è tutta in auto orienteering, in auto sufficienza, e i dispositivi Gps – quindi mappa e bussola – sono vietati.
Le distanze sono 150 e 300 km, tutte hanno durata di tre giorni. Ho scelto la più lunga. Le attività sportive principali sono canoa, mountain bike e corsa. Ma sono previsti tratti di arrampicata, tyrolienne (con un’imbracatura e una carrucola si raggiunge il punto di arrivo sospesi nel vuoto appesi ad una fune), canyoning, nuoto, discese da ponti e rocce, e tutto quello che è necessario per oltrepassare un ostacolo.
Ogni edizione è diversa, quindi non è possibile avere neanche un’idea di come sarà il percorso. Ma soprattutto le mappe non vengono consegnate se non la sera prima dell’inizio del raid. Altra cosa necessaria è un team. Bisogna avere sia un assistente che un compagno di gara. Appena ne parlo ad Alex, un istruttore del Cus esperto di gare OCR (Obstacle Course Race), ne è subito entusiasta. Poco dopo trovo anche un assistente. A dieci mesi dalla mia avventura ho già tutto il necessario, mai successo.
Si ricomincia da capo…
Mancano due mesi e l’assistente non può venire, mannaggia dovrò trovare una soluzione. A un mese dalla partenza incontro Alex, e scopro che non ha una bicicletta e che intende affittarla. Un’idea che stavo valutando anch’io per evitare di portarmi un peso per tutto il viaggio, la differenza è che io la bicicletta per allenarmi ce l’ho. Ma lui è forte e avrà i suoi metodi. Continuiamo a parlare, e mi dice che è impegnato fino a due giorni prima della gara. Ci lasciamo dandoci appuntamento per fare un piano con i tempi. Da quel momento Alex sparisce.
Non ho molte scelte, chiamo gli organizzatori e li avviso di quello che mi è successo. La dea bendata mi ha preso in simpatia, perché a un ragazzo canadese è successa la stessa cosa. Per l’assistente mi danno un contatto, Jean Michel, che a pagamento potrebbe farlo. Contatto via mail tutti e due. Con il ragazzo che farà la gara sembra tutto a posto, devo solo aspettare la risposta dell’assistente.
Mi ricordo che tra gli amici incontrati nelle gare uno era canadese, Michael. Lo avevo conosciuto in Islanda nel 2014, e nel 2015 in Messico ci eravamo rivisti in un’altra gara. Gli mando una mail chiedendogli se poteva interessargli questa esperienza. Il giorno successivo ricevo un messaggio dal nuovo compagno di gara: mi dice che non se la sente di fare un’esperienza del genere con una persona che non conosce. Perfetto, sono esattamente nella situazione iniziale. Tra circa dieci giorni parto e sono da solo, gli organizzatori mi vietano di gareggiare. Fine del sogno. Forse.
Senza bussola
“Boing”,il Mac emette un suono ed ecco la risposta di Michael: “Ciao Paolo, certo che mi farebbe piacere, però devo sistemare alcune cose al lavoro e posso arrivare il 5 settembre, che è il giorno della registrazione, spero di fare in tempo perché sono a 15 ore di macchina”. Wow, ottima notizia. Jean Michel ancora non mi ha risposto e, tramite gli organizzatori, provo a proporgli di fare con me la gara. La risposta non tarda ad arrivare. Ho un nuovo team Italo-Canadese. Parto per Montreal, dove incontrerò Jean Michel, un ragazzo simpatico, giovane e innamorato della sua terra, ma che però non ha la più pallida idea di cosa sia l’orienteering. Da questo incontro scaturisce il nome del team: “I debussolès”.
Ora ho una settimana prima che inizi il Raid e decido di andare a visitare per conto mio il Gaspesie. Non è la prima volta che sono in Canada (ci ero stato recentemente per il Canada Man Extreme), e volevo già visitare quella zona di 30.000 km quadrati. Immensa, quindi difficilmente vedrò gli stessi posti della gara. Il viaggio che mi aspetta è di poco più di 1.000 km, per i canadesi sono distanze normali da percorrere in macchina, a me era venuto il dubbio di aver sbagliato aeroporto.
Una cosa che mi affascina di questo RIG è come viene organizzato, perché è particolarmente complicato e lungo. La preparazione necessita di quasi un anno. In maggio, quando la neve si è sciolta, un gruppo di dieci ragazzi viene inviato nel Gaspesie per qualche mese con il compito di girare, mappare, cercare e valutare luoghi e percorsi. Tutti questi dati vengono poi uniti a quelli registrati negli anni. A questo punto viene creato un nuovo percorso per la nuova edizione. Poi inizia la fase dei permessi per poter entrare nelle varie proprietà attraversate dai possibili tracciati.
Partenza in riva al mare
È il giorno della registrazione, Michael e Jean Michel stanno arrivando e saranno in tempo, il luogo del ritrovo è Carleton sur Mer. Sono arrivato da due giorni e, in un ristorante, ho conosciuto Mohamed che, oltre ad essere il proprietario del ristorante stesso, farà anche la gara nella distanza di 150 km e mi ha invitato ad andare a trovarlo la sera delle gare dicendo che mi offrirà una cena buonissima. Come inizio non c’è male.
Una volta registrati si va alla presentazione della gara e dei team che avviene in riva al mare su una passerella in legno dove trova posto mega schermo. Siamo seduti su tribune sorseggiando l’immancabile birra, sullo sfondo il sole ci regala il suo tramonto. Sono incuriosito perché non ho ancora ben chiaro quello che dovrò fare, ancora penso che sia una specie di triathlon. I presentatori sono molto divertenti, anche se ho dovuto impiegare un po’ per capire quando stavano scherzando. Ogni volta che parlavano di un passaggio con qualche problema, sul mega schermo apparivano immagini catastrofiche o persone che si schiantavano.
Michael ha avuto la brillante idea di prendere altre birre, meglio non essere troppo coscienti. Alla fine della presentazione ad ogni team vengono consegnate le mappe dei tre giorni di gara e il road-book. Cerchiamo un posto per mangiare e per dare un’occhiata a quello che dovremo fare, anche se ormai è tardi e i miei compagni hanno avuto una giornata molto lunga quindi conviene andare a dormire.
Al mattino c’è la riunione pre gara, dove si espongono i passaggi critici, si fanno domande e si parla anche di attrezzatura non obbligatoria ma consigliata. Una di queste è la muta, che comunque io avevo. La spiegazione è in francese e mi pare di aver capito che in alcuni tratti l’acqua è di 7 gradi. Non sono sicuro di aver capito bene e aspetto la traduzione in inglese, che ribadisce: 7 gradi. E la muta non è obbligatoria. I canadesi iniziano a piacermi, qualsiasi cosa per loro va sempre bene!
Un piccolo assaggio con le giovani promesse
La giornata oggi è un po’ lunga, perché nel primo pomeriggio dobbiamo obbligatoriamente fare una gara, poi dobbiamo caricare la macchina con le bici e la canoa e partire alla volta di Percè da dove, all’indomani mattina, partirà il primo giorno del RIG. Percè dista 3 ore da Carlton sur Mer. Quel giorno non ho molta voglia di fare la gara, non ne capisco il motivo e solo quando raggiungo la partenza cambio subito umore. Questa gara è un piccolo raid di 15 chilometri e i team che partecipano sono tutti ragazzi molto giovani provenienti dalle scuole limitrofe.
Noi del Raid International siamo “padrini” dei vari team, e li accompagniamo in questa piccola avventura. Provo a immaginare cosa avrei provato da ragazzino a correre al fianco di persone che vengono da tutto il mondo. Mi stupisco di come l’atteggiamento della cittadina che ci ospita sia così aperto e di come tutto sia normale e rispettoso. Ad un punto della gara mi accorgo che stiamo entrando in un campo da golf: più di 300 biciclette che calpestano il green, poi si molla la bici e si corre nel laghetto dove alcuni partecipanti si buttano in acqua per nuotare. Non ci credo. In Italia saremmo già tutti in galera solo per averlo pensato. Alla fine della gara non ci sono vincitori, tutti hanno la stessa medaglia, ed è un’altra cosa che apprezzo molto. Vedere lo sport come il piacere di fare sport. Comunque è ora di andare, carichiamo la canoa e si parte! Arriveremo giusto in tempo per mangiare una cosa al volo e dormire qualche ora.
Uno spettacolo della natura
La luce del mattino mi svela quello che la notte celava. Siamo in riva al mare di fronte alla roccia bucata di Percè. Un’enorme lama di roccia che da terra entra nel mare con un buco verso la fine che crea un arco. Decido di godermi lo spettacolo mentre faccio colazione. Carico nello zaino la frutta, pane, burro di arachidi e datteri, quindi vado sul prato di fronte al mare. Non ho idea di cosa mi aspetti di lì a poco ma la calma di questo luogo è rigenerante. Arriviamo alla partenza, mi sento molto goffo perché indosso il gubbino di salvataggio e lo zaino.
Con Jean Michel ci dividiamo le cose da tenere. Io ho il passaporto della gara e lui ha il tracer del soccorso. Il passaporto della gara è un foglio con una serie di caselle numerate, durante la gara bisogna passare determinati check-point dove, con un punzone diverso ad ogni check, andremo a vidimare il passaporto.
Tre, due, uno… Via! Iniziamo a correre sulla spiaggia, poi sugli scogli, poi arrivano passaggi in mare. Alcuni nuotano, altri preferiscono sorpassare scivolose rocce, altri nuotano loro malgrado perché scivolati in mare. Non bagnarsi è impossibile, ma non bagnare la mappa è essenziale. Abbiamo una copia a testa, una in una busta ermetica e l’altra per comodità è in una tasca del mio zaino.
Uno sport tira l’altro
Alla fine della corsa arriviamo alle canoe. Andare in canoa in mare mi piace, l’acqua e trasparente e il fondale scivola veloce sotto di noi. L’imbarcazione è fornita dagli organizzatori ed è come quella dei fumetti di Zagor, per fortuna in plastica e non in pelle. A volte bisogna arrivare vicino a riva per poi arrampicarsi su grossi scogli e saltare da uno all’altro per raggiungere il punto di controllo, altre volte si entra in una laguna dove il fondo è basso e pagaiare non è efficiente, allora si salta fuori e si inizia a correre spingendo e trainando la canoa.
La parte che più ho odiato è la fine del tratto nautico dove, una volta scesi, si deve portare l’imbarcazione alla macchina e assicurarla. Non sempre l’assistenza è vicina al punto di sbarco, quindi i tratti con canoa in spalla sono anche lunghi e la barca è pesante a tal punto che, già dopo i primi metri, inizio ad odiarla. Gli sport si susseguono in un ordine non prestabilito: ora la bici, poi ancora la corsa, la canoa e così via.
Più passa il tempo e più ti rendi conto che lo sport che pratichi in quel momento è esattamente quello che vorresti fare in quel posto. Una volta capito che non è la performance che ti guida, ma è la natura stessa, tutto diventa ancora più piacevole e fluido: sei nel posto giusto al momento giusto. Ora stiamo correndo in un bosco, facciamo una curva e sotto di noi vediamo una cascata che forma un laghetto verde e cristallino.
Fa caldo e stiamo correndo da un po’, vedere quell’acqua è così invitante che ci salterei dentro. Continuiamo a correre, e dopo poco eccoci arrivati sulle rive del laghetto che avevamo visto dall’alto. Scopro che devo tuffarmi per raggiungere a nuoto la cascata, perché il check-point è proprio lì a fianco. Mi tolgo lo zaino e mi tuffo, ormai nuotare vestito di tutto punto e anche con le scarpe non è un problema, neanche ci faccio più caso.
Perdersi non è un problema
Per la prima volta uso lo sport come mezzo di trasporto, è una sensazione strana perché le capacità che uno ha sono funzionali al terreno, al mezzo e alla difficoltà che si incontra. Ad accentuare questa sensazione di estrema libertà è il fatto che sia in auto orienteering, per cui il guardare spesso la mappa mi catapulta in un modo di correre per me nuovo. Scegliere il percorso valutando le difficoltà che il terreno ti presenterà mi fa sentire come se fossi arrivato all’essenza della corsa. Immaginare che incontrerai una salita particolarmente ripida, decidere di guadare un fiume, scegliere la via più lunga perché più veloce. Solo io, la montagna, una mappa e la bussola. Ovviamente ci siamo persi spesso.
Esistono più modi per perdersi. Il più innocuo è godersi la corsa e non prestare attenzione alla mappa. Mi è capitato correndo sui binari di un treno. Le rare volte che è successo, mi sono sempre divertito, non saprei spiegare il perché, forse mi sembra di essere in fuga. Quando, in lontananza, ho visto un ponte non mi sembrava vero, volevo soltanto correrci sopra. Era un ponte in legno, e il passaggio era sul bordo esterno di assi affiancate, alternato da lunghe grate di ferro. Passarci sopra ti faceva sentire sospeso come correre nel vuoto. Soltanto quando Jean Michel mi ha chiesto dove stavamo andando, sono tornato alla realtà. Non ne avevo idea, volevo solo correre sul ponte. Ma avremmo dovuto girare molto prima. Poco male, abbiamo rifatto il ponte.
Dov’è il check-point?
Il secondo modo di perdersi è sapere dove si è ma non riuscire a trovare il check point. In questo caso il tempo scorre senza che tu te ne renda conto, ti intestardisci, è come un gioco matematico: hai tutto davanti ma non trovi la soluzione.
Il terzo modo è il più brutto: non hai la minima idea di dove ti trovi, per cui non sai quanto tempo ancora dovrai stare in giro per trovare il sentiero, non sai se l’acqua nella borraccia sarà sufficiente, è un po’ sconsolante.
Ho provato anche un quarto modo: in alcuni tratti sul road book appariva la scritta “bushwalking” (camminare nei cespugli). Praticamente si cammina in un bosco di cespugli e alberi dove non vedi dove devi andare e non esiste un sentiero. Cerchi di seguire la bussola, ma a comandare la tua direzione sono i rovi. Allora scovi il passaggio meno complicato. Giri e rigiri, sali e scendi, e dopo un po’ non sai bene dove sei, l’unica cosa certa è che hai le gambe scorticate.
L’ultimo check point è all’interno di una birreria. Sono quasi le 20, fuori è buio, il pub è pieno, e passare inosservato è abbastanza difficile. Sono in pantaloncini corti, maglietta, uno zaino dal quale pende il casco da roccia, l’imbragatura, funi e moschettoni e, come se non bastasse, ho anche la frontale accesa. La gente si gira mi guarda e sorride, farsi offrire una di birra è un gioco da ragazzi.

Gli ostacoli sono un bivio tra possibili soluzioni
Gli altri due giorni si rivelano altrettanto pieni di scoperte passando dalla partenza in mare prima dell’alba, che mi ha causato un principio di ipotermia, per finire sotto l’arco dell’arrivo. Ogni giorno ha aumentato le capacità, la sicurezza e la voglia di vedere la prossima cascata o scoprire un laghetto al centro di un bosco. Anche mettersi la bicicletta sulle spalle e salire un pendio è diventato normale, se non si può passare sopra lo scoglio allora si passa via mare. Gli ostacoli non sono degli inconvenienti ma sono un bivio tra possibili soluzioni.
L’arrivo è sulla spiaggia di Carlton sur Mer. La notte prima abbiamo dovuto fare il trasferimento da Percè a Carlton e siamo arrivati molto tardi, abbiamo dormito meno di 4 ore. In tre giorni abbiamo fatto 36 ore di sport, ma non percepisco la stanchezza. Ho finito il Raid, e ho una sensazione di felicità, sono proprio contento. Da quando è iniziata questa avventura, con in miei compagni ho parlato in francese e in inglese. Ora pretendo che siano loro a parlarmi in italiano. Jean Michel mi guarda e mi dice che ha imparato solo una parola: “Fanculo”. Scoppio a ridere, in effetti sono stati tre giorni meravigliosi, ma che fatica. Fanculo!
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